Cosa resterà di questi giorni

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Ciò che ricorderò di più di questo periodo è la segreteria telefonica della piscina. Ci portavamo mio figlio, tre e anni e mezzo, la domenica mattina, e si divertiva come un matto. Ci obbliga a telefonare tutti i giorni, anche più volte, per sentire se ha riaperto.

E poi mi chiedo cos’altro ci resterà, di questi giorni.

Forse la bellezza che si manifesta comunque in tutte le cose. O forse la riscoperta creatività, oppure il bisogno di fare ora tutte le cose che avremmo potuto fare prima, quando eravamo presi dalla frenesia di tutti i giorni, senza accorgerci che la vita ci scorreva accanto. Perché è innegabile che nella normalità demandiamo al domani quanto non riusciamo o non abbiamo il coraggio di fare oggi. E poi, si sa, non è importante fare o non fare, ma avere la libertà di scegliere.

La costrizione è sì isolamento, limitazione, e a volte, purtroppo, solitudine e abbandono, ma può anche essere catarsi, introspezione, riscoperta.

E allora penso a tutte le cose che fino ieri ritenevo indispensabili, e ora vedo un mondo, non soltanto il mio, diverso. Mi scopro più empatico, più sensibile. Mi commuovo per un flash mob, per gli applausi dai balconi, perfino per una pubblicità. E vedo lo stesso negli altri. Oddio, più che vederlo lo sento, visto che non possiamo toccarci. Penso a questa ricerca di contatto, questo bisogno di condivisione, di appartenenza e, solo per un attimo, mi chiedo cosa sia, da dove venga. Ma poi capisco che, più importante di catalogare questa sensazione, sia il soffermarsi sul fatto stesso di provarla. Per una volta, voglio concentrarmi sul sentire.

Gli occhi di chi sta facendo l’impossibile affinché tutto questo finisca.

Gli occhi dei nostri figli, di cui non saremo mai sazi.

Gli occhi dei nostri vecchi, ora ancora più fragili. La parte più profonda delle nostre radici che ci abbandona. Gli ultimi saluti dati davanti a un tablet.

La nostra impotenza e la mancanza apparente di un senso. La ricerca di un perché a tutti i costi e il bisogno di credere in qualcosa, perché la razionalità, da sola, non ci basta. Ai fiumi di parole sprecate e a quelle che non trovo per spiegare a mio figlio perché non può vedere i suoi amici dell’asilo.

Ma poi penso anche a tutte le meravigliose frasi già scritte e quelle ancora da scrivere, e a quelle sentite in questi giorni e che ritroveremo nei libri di storia.

E alla musica e a tutte le forme d’arte e all’arte racchiusa in tutte le forme.

Penso alla Natura, che vince sempre, riprendendosi i suoi spazi, facendomi dubitare su quale sia il virus più letale del pianeta.

Chissà cosa ci resterà, di questi giorni. Spero non solo il ricordo delle strade vuote, il suono delle ambulanze, il pane e gli gnocchi fatti in casa. Spero che la velocità con cui torneremo alla vita di prima non ci faccia dimenticare quanto di buono abbiamo tirato fuori da noi stessi. Che sia, come dopo una guerra, anche una rinascita.

Forse, nell’illusione fanciullesca e utopica che, mio malgrado, non mi abbandona nonostante l’età, impareremo ad usare di più il “noi”.

La gabbia invisibile – booktrailer

In primo piano

Booktrailer de La gabbia invisibile.

Un grazie di cuore a Daniele, Puppet e Silvia.

 

Video a cura di Daniele, danidadog@gmail.com

Fotografie a cura di Silvia, www.silviapasquetto.com

Musiche a cura di Puppet, www.puppetweb.net

 

 

19 Marzo 2016

19 Marzo 2016

Tum tum tum tum tum tum tum tum tum tum…

Fisso incredulo il monitor, come attraverso un vetro appannato, vinto da tanta impetuosa potenza. Un vetro in cui batte copiosa la pioggia: questo è il mio viso, ora. Ti guardo, ed è come se mi vedessi allo specchio. Anche tu non riesci a trattenerti, è una cosa troppo grande perfino da immaginare. Il monitor ci rimanda l’immagine di un circoletto grigio e di un altro un po’ più piccolo, quasi bianco. È un piccolo fagiolino di 1,17 centimetri, ci dicono, ma è incredibile come emani già la forza di un gigante. È impossibile vederti, immaginarti, piccolo mio, ma già ti fai sentire alla grande; il tuo battito a 180 al minuto, è un rumore forte, intenso, il tuo modo di dirci che ora ci sei anche tu, con noi e parte di noi. È un rumore che ci rimbomba nelle orecchie, un meraviglioso inno alla vita che non potremo mai dimenticare.

Le nostre paure se ne sono andate in un battito, è proprio il caso di dirlo. Si sa che i primi tempi sono i più difficili, eppure sembra già così forte! Il suo cuore che batte è il reclamo per un posto nel mondo. Le ultime due settimane sono state strane, abbiamo vissuto come in una sorta di limbo, tra la novità del test e la conferma della prima visita. Ricordo l’attesa del test, le due linee comparire, il sorriso nei tuoi occhi, io che guardò prima il test e poi te, tu che mi confermi, raggiante, “sì, sono incinta!”. E i giorni successivi, la mia trasferta per una settimana intera e le tue nausee, accompagnate dai primi sbalzi d’umore. E le nostre paure, legittime, che tutto andasse per il verso giusto. È stato un caso, ma sono contento che la prima visita, a suggello della conferma che diventeremo genitori, sia stata proprio il 19 Marzo, giorno della festa del papà. E da papà ho provato ad immaginarmi nelle ultime due settimane. Mi sono accorto di guardare i bambini in maniera diversa, con una tenerezza e un senso di protezione per me nuovo.

Ti guardo ancora, mia compagna di vita e, ora che sei distesa e guardi anche tu il monitor sopra di te, mi rendo conto che nulla sarà mai come prima. Nel percorso della vita si passa attraverso delle porte: noi abbiamo fatto un percorso insieme, e ora stiamo per varcarne, di nuovo insieme, una soglia da cui non si potrà tornare indietro. Un figlio è per sempre. Io e te potremo prendere strade diverse, un giorno, ma lui sarà per sempre. E sarà per sempre qualcosa che abbiamo fatto insieme.

Ora che ne sento il battito, sento salire la responsabilità per ciò che sarà, per ciò che diventerà. Responsabilità, non paura, perché un figlio è per un genitore anche una meravigliosa occasione per per essere una persona migliore. Volere il meglio per un figlio significa anche dare il meglio di sé, ogni giorno e ogni giorno di più.

Non posso, in questo momento dove per la prima volta stiamo guardando il nostro bambino, starti vicino e stringerti: lo studio è piccolo e c’è la ginecologa tra di noi. Aspetto che finisca di spiegarci che quel piccolo fagiolino di poco più di un centimetro è il nostro bambino, mentre il circoletto bianco accanto è il sacco vitellino, da cui per ora trae nutrimento. Siamo alla settima settimane, ne mancheranno altre trentatré prima di vederlo. Sarà un tempo che gli servirà per crescere sano, e a noi per prepararci a diventare i tuoi genitori. Non è un caso se la Natura ha previsto un periodo di gestazione così lungo, e noi aspetteremo con pazienza. Ora che la ginecologa ha finito, mi precipito da te, a baciarti la fronte e abbracciarti, e non mi preoccupo se ora sente i nostri singhiozzi, manifesto della nostra gioia.

Finita la visita, torniamo in macchina, e vuoi per la tensione accumulata negli ultimi giorni, vuoi per la gioia che tutto, finora, è andato bene, vuoi per il fatto che è il nostro primo momento di intimità, finiamo per lasciarci ancora andare all’emozione. Saremo genitori: una parola che riempie la bocca, dalla portata del significato che si porta addosso. Decidiamo di tenere la cosa per noi, ancora per un po’. Decidiamo che lo diremo ai nostri genitori il giorno di Pasqua, nascondendo un paio di scarpine dentro l’uovo. Sarà una bella sorpresa e un modo carico per comunicarlo.

Avvio la macchina e ci dirigiamo verso casa, nella nostra nuova dimensione. Guido piano, con una prudenza forse eccessiva, perché ora sento che devo proteggere te e la creatura che porti. Ogni tanto, quando ci fermiamo a un semaforo, mi giro a guardarti. Vado a oltre dieci anni fa, quando abbiamo cominciato a frequentarci e vedo tutto il nostro percorso, e penso al salto di qualità che stiamo per fare. Mi sento fiero e orgoglioso che tu abbia scelto me come compagno e padre.

Ma d’un tratto sento salire l’ansia: sarò mai all’altezza di un compito così grande? Sarò pronto a passare da essere figlio a genitore?

Cerco di guardarti con la coda dell’occhio e intravedo le mie stesse paure. Sposto lo sguardo verso la tua pancia, cercando di scorgere una protuberanza ancora impercettibile, e finalmente capisco. Capisco da dove trarre forza e coraggio: proprio da te, piccolo mio che verrai, dalla forza con cui ti stai affacciando alla di vita. Quando sarò assalito dai dubbi ripenserò alla forza dirompente del battito del tuo cuore.

Tum tum tum tum tum tum tum tum tum tum…

Presentazione de La gabbia invisibile al Centro Commerciale Auchan di Mestre, Sabato 22 Luglio 2017

Dopo un bel po’ di tempo, lo scorso Sabato 22 Luglio, presso il Centro Commerciale Auchan di Mestre, si è tenuta un’altra presentazione de La gabbia invisibile.

Un grazie particolare a Gloria Gallo, che mi ha offerto questa opportunità e che mi ha presentato; a MeMagazine, che è intervenuta e ha fatto un gran bell’articolo, e a tutti quelli che sono intervenuti.

Riporto un’estratto dell’articolo:

…Il nostro Stefano non si è risparmiato nel dettagliare le scelte e le modalità adottate nello sviluppare la trama, affermando – quasi a voler confermare la dedizione che mette nella scrittura: come hobby e passione – che:  “anche se la storia che lega i suoi personaggi è fantastica a tratti surreale, come i protagonisti stessi… quando scrivi non è pensabile sentirsi totalmente estranei alla propria natura, restando schivi e distaccati alle esperienze che si vogliono far vivere dei personaggi scelti. Sicuramente in ognuno di loro, fosse anche solo una minima parte trascurabile ai più… c’è qualcosa di mio, che mi appartiene, che ha fatto  parte/fa parte della persona che sono…”  Sincero e consapevole ammette quindi che piccole sfaccettature della sua persona fioccano all’ interno delle sue righe.

Di lì si svela – ma forse i nostri cari lettori di Me Magazine lo sanno – la passione di Stefano per il vino… nata quasi per caso frequentando un corso di sommelliers, come lo stesso ha dichiarato…  che sia un caso anche che tiene nella nostra rivista una rubrica dedicata alla bevanda di Bacco!?!? Anche in questo caso, ascoltando un passo letto da Gloria, riscopriamo in Stefano le doti  di un autore attento e capace: certosini dettagli nel descrittivo che lasciano libera l’immaginazione di visualizzare la scena descritta di una pregiata bottiglia d’annata da gustare… se avrete modo di leggere il romanzo apprezzerete sicuramente le qualità dello scrittore.

Storie di… vino! – Le Eccellenze del Veneto – Parte 4

Per questa puntata del nostro tour delle eccellenze del Veneto, abbandoneremo la provincia di Treviso e ci addentreremo nelle provincie di Vicenza e Verona, zone di ricchissima produzione vinicola. Famosi e decantati sono sicuramente i rossi secchi come l’Amarone della Valpolicella e il Bardolino Superiore, ma non solo: avete mai gustato i famosi recioti? Bene: ve ne sono ben tre che si forgiano della denominazione D.O.C.G., uno in provincia di Vicenza, il Recioto di Gambellara, e due in provincia di Verona, il Recioto della Valpolicella e il Recioto di Soave.

Consentiteci prima la nostra consueta digressione storica: anche nell’antica Roma esistevano l’equivalente delle nostre enoteche. Erano dei locali molto grandi, fumosi e spesso sudici e si chiamavano taverne o popine. L’ambiente non era certo adatto ai palati più fini: oltre che sporco, era frequentato da giocatori d’azzardo, ubriaconi, delinquenti e attaccabrighe. Durante i banchetti (che spesso degeneravano in baccanali) era necessaria la presenza di un esperto, l’haustores (antenato del contemporaneo sommellier), che decideva, in base al menù, con quanta acqua allungare il vino, che non era mai di qualità sopraffina (uno dei vini più pregiati dell’epoca, il Falernum, l’attuale Falerno, era a unico appannaggio dei nobili Patrizi).

Torniamo ora ai giorni nostri e al Recioto: da dove arriva questo nome così curioso?

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Me Magazine

Da Novembre 2016 ho iniziato una collaborazione con Me Magazine, il portale e giornale gratuito della Riviera del Brenta!

 

Ogni mese pubblicherò articoli che compariranno nella rivista cartacea, on-line e in questo sito.

Aprile 2017

Storie di… vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 4

Marzo 2017

Storie di… vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 3 (anche nella versione cartacea di MeMagazine del mese di Marzo!!)

 

Febbraio 2017

Senza olio di palma – Anglofonie e cacofonie

Pollice opponibile – Allattamento in pubblico

Storie di… vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 2 (anche nella versione cartacea di MeMagazine del mese di Febbraio!!)

 

 

Gennaio 2017

Pollice opponibile – Ludopatia

Senza olio di palma – Il risvolto del risvoltino

 

Novembre 2016

Storie di…vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 1

 

Ottobre 2014 (su RBD Magazine)

Storie di…vino! Il Veneto e l’Amarone

Comuni Amarone

Storie di… vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 3

Il mese scorso avevamo interrotto il nostro tour delle eccellenze vinicole nella zona D.O.C. Lison. In questa nuova puntata ripartiremo da dove ci eravamo fermati, percorrendo la provincia di Treviso verso Nord-Ovest, per arrivare forse nella più famosa zona del Veneto nel mondo per quanto riguarda la produzione vinicola: quella del Prosecco.

Una prima precisazione, doverosa: il Prosecco è, prima ancora di essere un vino, un vitigno, conosciuto anche con il nome Glera, presente in diverse varietà. Dalle sue bacche bianche si ottiene il vino omonimo, prodotto ormai nella maggioranza dei comuni del Veneto (e non solo) e apprezzato in tutto il mondo per la sua poliedricità in fatto di accostamenti a tavola. Quindi non solo per l’aperitivo e per lo spritz, ma a tutto pasto e per tutti i gusti.

Prima però, il consueto salto indietro nel tempo: lo sapevate che nell’antica Roma non era consentito bere alle donne? Il frutto di Bacco era solo per gli uomini sopra i trent’anni. Pensando alla sua funzione sociale ai giorni nostri sarebbe una tragedia, considerato che il vino, e gli alcolici in generale, sono tra gli strumenti di seduzione preferiti dei poco audaci che cercano nel Dio Bacco un modo per vincere la timidezza. Un’apposita legge, denominata Mos Maiorum, stabiliva che tra i reati punibili con la pena capitale vi fosse appunto l’aver bevuto del vino, reato considerato per gravità alla pari all’adulterio. E dulcis in fundo l’esecuzione della condanna era consentita ai parenti più stretti o al marito che, tornato a casa, poteva esercitare lo ius osculi, il diritto di bacio, sgamando così l’alito della consorte. E oggi ci lamentiamo della prova del palloncino…  La pena più frequente era la morte per inedia, considerata ai tempi tra le meno crudeli(!), ma le cronache dell’epoca riportano anche di morte in seguito a bastonate(!!). Ma perché i Romani consideravano il bere una cosa così deprecabile per le donne? Gli storici si sono sbizzarriti: secondo alcune credenze popolari, il vino poteva provocare l’aborto; secondo altre era portatore di vita come il seme maschile e quindi le donne, bevendolo, potevano mettere in pericolo la purezza della discendenza, come con il tradimento.

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Senza olio di palma – Anglofonie e cacofonie

A: Ma sei sicuro che sia il caso di procedere in questo modo? Qui ci giochiamo la reputation dell’azienda.

B: Più che sicuro. Basterà fare un bel business plan e il gioco è fatto.

A: Mmhh… Sono scettico. Non credo che l’effort sia stato valutato in maniera adeguata.

B: Convengo con te che ci sono dei rischi. Ma hai visto la swot analysis, i punti di forza sono di gran lunga superiori alle weaknesses, e i threats sono limitati a poche aree geografiche.

A: Sì, però io vedo problemi di implementation della strategia. Sai come me che non è facile trovare il giusto deployment nelle realtà locali. Non vorrei che le nostre filiali perdessero il focus e il commitment.

B: Beh, se è per questo ci sono i piani di rebate, il miglior modo per tenere in tiro la rete vendita. Ovviamente i rewards devono essere challenging.

A: Sì, ma non ne faccio una pura questione di incentives. Il problema è legato ai delivery di training da HQ verso le filiali per garantire gli skills necessari alla realizzazione del progetto.

B: Ok, vorrà dire che ci terremo tre mesi di contingency.

A: Mmhh… Non mi hai convinto del tutto, ma procediamo. Se andrà bene, avremo una best practice to copy-and-past per gli altri market segment.

Questo dialogo, surreale fino a un certo punto, potrebbe essere ascoltato in qualsiasi sala riunioni di una qualsiasi azienda del Nord-Est che abbia un minimo di affari e/o struttura commerciale all’estero. Notate niente di strano? Io l’italiano me lo ricordavo diverso… Che fine sta facendo quindi la lingua di Dante? Che stia forse segnando il passo a una nuova neolingua, come aveva profetizzato Giorge Orwell nel suo 1984?

In questa puntata di Senza olio di palma parleremo di Anglofonie e cacofonie.

Il dialogo di cui sopra, che fa certo ridere è, vi assicuro, diventato uno standard per dipendenti di aziende che lavorano con l’estero. Ma come siamo arrivati a tanto? Certo, centinaia di mail e decine di telefonate al giorno in Inglese non aiutano, ma dietro c’è molto altro.

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Quanto fa infinito meno tre?

Giovedì 10/11/2016, ore 04:05

È dai tempi dell’Università che non cammino a Padova a quest’ora. Era piacevole: strade deserte, pochi pensieri e testa pesante, per via degli spritz prima e delle birre poi. Come vorrei essere ubriaco ora, avere la testa che pulsa, incapace di concentrarmi su altro che non sia la strada. Ma stanotte è diverso, e anche se il senso di ovatta nel cervello è lo stesso di allora, non lo è il senso di leggerezza, di svogliata noncuranza per tutto ciò che mi circonda.

Un unico pensiero fisso. Devo chiamare un sacco di persone, devo avvisarli che va tutto bene. E devo essere convincente. Mi sforzo di tenere un tono rassicurante, cerco di prevedere le domande, il tono carico di ansia di chi dall’altra parte si aspetta di essere rincuorato. Sì, posso farcela. Anche se non dormo da quasi ventiquattr’ore, e oggi abbia vissuto più emozioni che in tutto il resto della vita. Nonostante io stesso non sia profondamente convinto che il peggio sia passato, devo farcela. Per lei, per lui e per noi.

Percorro quasi correndo il tratto da Via Giustiniani, all’uscita del Policlinico Universitario, a Via San Massimo, dove avevo parcheggiato circa due ore prima. Salgo in macchina, prendo il telefono e ti chiamo. Rispondi dopo il primo squillo, chiaramente mi aspettavi.

“Paolo sta bene”.

Ti spiego, cercando di essere il più convincente possibile, ciò che mi hanno detto i dottori. Mi sento ripeterti almeno tre volte sta bene e sento la tua ansia sciogliersi. Ma in realtà ho paura, una paura fottuta. E rabbia: è così profondamente ingiusto che io sia qui, vicino a lui, e tu no. Ma finché parliamo riesco a controllarmi, la tua voce mi calma, anche ora che sei in ansia. Dici sempre che sono il tuo ansiolitico naturale; forse è vero, perché sono più razionale di te, ma solo ora mi rendo conto che anche tu, per il solo fatto di esserci, lo sei per me.

Ho fretta di chiudere la conversazione, non vorrei trapelassero i miei dubbi, che ora non posso permettermi. Devo andare a casa, in fretta, riposare per poi ripartire. Ci sono così tante cose da fare domani…

Con la scusa di chiamare i nostri rispettivi genitori riesco a mettere giù prima di cedere. Ingoio saliva amara, giro la chiave e accendo le luci, deciso a partire senza indugi. Sto per togliere il freno a mano quando arriva: una sensazione di freddo improvviso, dalla nuca alla sommità della testa. Un’immagine si staglia davanti senza alcuna possibilità di tregua: luci accecanti attorno al suo corpicino esile, in contrasto con il buio della notte. La prima immagine di Paolo, nostro figlio, non è quel quadro che ci eravamo raffigurati, quell’apoteosi di tenerezza di una nuova vita che nasce, ma un incubo fatto di angoscia e terrore. Elettrodi che partono dai piedini, dal torace, dai fianchi, cannule che escono dal naso e quel visino che sembra ignaro di tutto quel trambusto, innocente come il bianco della sua pelle.

Basta, non ce la faccio più. Reclino la testa all’indietro, stringo le mani sul volante e scoppio a piangere. Forte, senza alcun bisogno e voglia di controllarmi. Mi lascio andare, sentendo salire il calore sulle guance, assaporando i singhiozzi. Finalmente.

 

Sabato 12/11/2016, ore 12:10

Riesco a scattarti una foto. Rivederla ci farà piangere, domani come tra trent’anni. È forse questa la felicità? Se la intendiamo come la fine di una sofferenza, certo, lo è. Ma in realtà è solo sollievo. E questo che mi hai confidato, qualche giorno dopo, di aver provato.

Tu che stringi Paolo al petto, seduta in quella scomoda sedia nella nursery è una delle immagini più forti che ricorderò di quei giorni. Eri così fragile e provata, eppure è solo da allora, solo dal quel preciso momento, che tutto è come avrebbe dovuto essere dall’inizio. Il vostro primo abbraccio.

Ci sono cose che un uomo non può comprendere: le sensazioni e il trasporto di una mamma, ad esempio. Posso arrivare a intuire, ma non comprendere. Impossibile decifrare ciò che stai provando. Quindi decido di fare lo spettatore, di essere almeno utile, per farti quella foto che, come l’alcol per un alcolizzato, ti farà paura ma che continuerai a cercare. Mi perdo nel particolare della tua camicia da notte, di come ti veste sulle gambe, sui fianchi. Credimi se ti dico che ti vedo bella anche ora. Nonostante anch’io senta il bisogno di stringere nostro figlio, non voglio rubarvi quel momento, che è solo vostro. Lo capisco anche dal senso di abbandono che vedo in Paolo, quel lasciarsi andare nel tuo petto senza condizioni. È una cosa animale, istintiva. Vedendovi così, insieme finalmente, capisco che l’incubo è finito e finalmente potremo partire come famiglia. In questi ultimi tre giorni le nostre energie e speranze erano rivolte unicamente alla sua sopravvivenza, a dare un seguito a quel benvenuto così traumatico che il mondo gli aveva riservato, mentre ora potremo cominciare a programmare la nostra vita insieme. Non so come andrà, ho letto molti libri, ma mi rendo conto che nessuno potrà mai dirti cosa fare. Nessuno potrà mai dirti che genitore sarai. Io posso solo dire che mi farò guidare dall’amore. Per lui e per te.

Sono le ore 12:10 di Sabato 12 Novembre, e Paolo è tornato dal reparto di Patologia Neonatale di Padova. Ora è in Ostetricia a Piove di Sacco, ed è finalmente tra le braccia della sua mamma.

Mercoledì 09/11/2016, ore 23:15

Esco dalla sala travaglio. Fuori, in corridoio ci sono i tuoi genitori e tua sorella. Siamo ben oltre l’orario di visita, ma chi avrebbe mai potuto fermarli? Cerco di assumere la mia miglior faccia da culo e riesco a dire, con voce ferma, “devono farle un cesareo d’urgenza”. Tua mamma esce dal reparto piangendo, tuo papà rimane pietrificato, tua sorella fissa lo sguardo a terra. Credo l’avessero capito nell’istante stesso in cui mi hanno visto uscire. Io comincio a camminare avanti e indietro, a braccia conserte, sforzandomi di non incontrare mai il loro sguardo.

Qualche minuto prima ero dentro con te. Eravamo insieme, uniti in quello sforzo sovrumano, tributo da pagare per una nuova vita che arriva. Tu, pudica e discreta anche nel dolore, nello sforzo più grande che si possa immaginare e che solo una mamma può sopportare, e io, che cercavo di farti rimanere concentrata ma conscio della mia impotenza davanti a tanto. Dopo sette ore di travaglio, tre induzioni e passato l’effetto dell’epidurale non urlavi, solo ansimavi piano, il dolore ti aveva ormai vinta in un torpore vicino all’incoscienza. Ma c’eravamo vicini, eccome se c’eravamo. La dilatazione era massima, il suo battito regolare, Una mattina di Einaudi che andava a loop, la luce soffusa, l’ostetrica che ormai sentiva la sua testina affacciarsi al mondo. Il rumore del suo battito attraverso il monitoraggio mi dava tranquillità, era il metronomo che scandiva il tempo in quegli istanti unici. Avevamo ripassato insieme la respirazione durante le varie fasi del travaglio, sapevo qual era il mio compito e cercavo di farlo al meglio, unico modo per darti un po’ di supporto.

Quando nasce un figlio nasce anche un papà, è questa la grande differenza: tu sei diventata mamma nel giorno in cui abbiamo scoperto di aspettare un bambino. Ed è proprio così: il bambino lo si aspetta, ma tu lo avevi già cullato nella pancia per nove mesi e più. Quarantuno settimane e due giorni, per la precisione. Io stavo diventando padre solo ora, nel momento in cui vi vedevo lottare insieme per la vita.

In quegli ultimi istanti concitati mi sforzavo di pensare al momento in cui lo avremmo preso tra le braccia, al nostro primo sguardo insieme, alla nostra commozione, al nostro scoprirci genitori per la prima volta. Avevo provato a immaginare questo momento diverse volte, ma senza mai coglierne la vera essenza. Aspettavo, tra una carezza e una spinta, che Paolo arrivasse tra di noi.

Ma non ero pronto per questo, nessuno può esserlo. Il metronomo che rallenta, una voce stridula che rompe l’idillio e tutto il resto poi vissuto come al rallentatore. Il suo battito che rallenta, e rallenta ancora, la sala parto che si affolla di gente, tu che urli il suo nome con quel poco di fiato che ti è rimasto, io che esco come un automa dalla sala travaglio, senza che nessuno abbia bisogno di dirmi ciò che ormai era diventato ovvio.

Ci sono immagini che rimangono indelebili: per me saranno quelle di un’ostetrica che entra con le braccia insaponate fino alle spalle per prepararsi per l’operazione. Sono le 23:15 di Mercoledì 9 Novembre 2016.

Poi venti minuti di nulla. Non ricordo alcuna sensazione in quel mio passeggiare nervoso. Fino a che sento il pianto di un neonato. Paolo è nato ed è vivo, penso. I dati ufficiali diranno alle 23:28. Non riesco a sentirmi felice, e nemmeno sollevato, perché all’appello manchi ancora tu, e senza di te manca la metà del mondo.

Passano altri quindici minuti. Mi ripeto che è normale, perché in fin dei conti ti hanno fatto un’anestesia totale, ma la verità è che ho paura. Mai, nemmeno da bambino, ricordo di aver provato un tale senso di impotenza. Finalmente esce un’ostetrica, la stessa che ci aveva seguito fino alla fine del travaglio, e sorridendomi dice “stanno tutti e due bene”. Brividi alla nuca, e un macigno che dal cuore si sposta un po’ più in basso. Finalmente posso di nuovo guardare in faccia i tuoi genitori e tua sorella e posso condividere con loro questo istante di sollievo.

Prima che possa vederti passano, mi pare di ricordare, altri quindici minuti. Ti raggiungo ai piedi del letto e ti leggo l’incubo negli occhi, tremi per il post operazione e la paura. A nulla servono le mie raccomandazioni e quelle dei dottori: hai bisogno di Paolo, hai bisogno di vederlo e sentirlo. Ci dicono che appena nato non respirava, che hanno dovuto ventilarlo, che ora sta bene ma che per precauzione devono portarlo a Padova per accertamenti. Sospetta asfissia per funicolo al collo, diranno. Negli istanti finali pre-parto il cordone ombelicale gli si era attorcigliato intorno al collo, creando una sofferenza cardiaca. Chi sa delle conseguenze al cervello da carenza di ossigeno non può rimanere tranquillo davanti alla frase “sta bene, ma dobbiamo mandarlo a Padova per accertamenti”. Beata ignoranza.

Il resto è un altro vortice di immagini impresse nella memoria in ordine casuale: la prima immagine di Paolo, il breve istante in cui lo hanno ricongiunto a te, la sua mamma, prima di caricarlo nell’ambulanza, il tragitto fino a Padova in macchina, l’arrivo al reparto di Patologia Neonatale, la firma delle carte in cui mi assumevo, come padre, la responsabilità delle conseguenze in seguito a tutte le cure invasive necessarie per tenerlo in vita. E tu sempre sola e lontana da noi.

Ci sono infiniti modi per approcciare la paternità; il destino ha deciso che il mio doveva essere il più eclatante. Il senso di responsabilità mi era arrivato tutto in una volta, imponente e crudele, come uno tsunami davanti a una casa di paglia. Ci aspettavano giorni duri: tu sola a Piove di Sacco, io su e giù a Padova, a vedere i suoi progressi e portarti foto e informazioni fresche. Ma per quanto riuscissi a rimanere ottimista, il pensiero di te senza Paolo nei primi giorni della nostra vita insieme mi serrava la gola e mi lasciava un profondo senso di ingiustizia e frustrazione.

L’incubo non era ancora finito.

 

Sabato 19/11/2016, ore 11:30

Finalmente siamo seduti nel nostro divano, rilassati. Paolo ha appena fatto la sua terza poppata giornaliera e dorme beato nella culla. Siamo a casa da Lunedì sera, ma i primi giorni sono stati frenetici, si sono susseguiti senza che ci fosse distinzione tra notte e giorno, tra pranzo e cena. Paolo ci aveva già sconvolto abitudini, casa e vita. È strano che, per quanto sia normale e in qualche modo ci sia da aspettarselo, è una cosa che coglie sempre tutti impreparati. Dopo quei giorni in ospedale non avevamo avuto modo di rifiatare, Paolo reclamava giustamente tutte le nostre energie e attenzioni.

Lo guardiamo dormire sereno e ci sembra quasi impossibile dopo tutto ciò che abbiamo passato. È la prima volta che ci prendiamo una piccola pausa da quando ti hanno ricoverata, e cominciamo a scambiarci le nostre opinioni, sensazioni e sentimenti di quei giorni. Io ti confido che ero molto più impaurito di quanto ti avessi fatto credere, tu mi condividi gli incubi che hanno infestato quelle notti maledette in cui eri sola in quel letto d’ospedale. Ciascuno ora è più consapevole di ciò che ha passato l’altro e ora, forse, siamo ancora un po’ più uniti.

La tristezza di non averlo stretto tra le braccia al suo primo respiro non ci ha ancora abbandonati, e so che rimarrà per sempre un’ombra nel nostro percorso. Ma abbiamo ancora un numero infinito di sguardi, baci e carezze; un numero infinito di giorni, esperienze e scoperte; un numero infinito di volte in cui ci stupiremo di come possa essere bello essere i suoi genitori. Abbiamo perso solo tre giorni, in fondo.

Ma nel tuo sguardo vedo un’amarezza che non ti ho mai visto, una tristezza profonda che ti solca il viso. E allora capisco che hai bisogno di me, ora. Hai bisogno che ti dica qualcosa di bello, qualcosa che ti faccia affrontare il futuro con fiducia. Ti guardo, respiro a fondo, ti prendo il viso tra le mani e ti sussurro, con voce rotta: “Quanto fa infinito meno tre?

E ora, finalmente, tutto è come dovrebbe essere.

Pollice opponibile – Allattamento in pubblico

Si sentiva proprio la mancanza dell’ennesima polemica inutile. Come se non ci fossero questioni più importanti con cui impegnare le nostre cellule grigie. Sarà perché sono diventato padre da poco e sono più sensibile, ma ho la netta sensazione che ultimamente sia stato preso di mira il seno delle neo mamme. Per questa puntata di pollice opponibile ci occuperemo dell’allattamento in pubblico.

Sembra che la polemica si sia inserita in un “buco” legislativo: manca infatti in Italia una legge che regolamenti l’allattamento nei luoghi pubblici. Ma la vera domanda è: serve davvero una legge che certifichi quanto la Natura ha già stabilito? Sembrerebbe, data l’atavica capacità dell’essere umano di complicarsi la vita, proprio di sì: altri paesi, manco a dirlo, hanno già regolamentato in merito. In USA l’allattamento in pubblico è consentito già da tempo quasi ovunque, mentre in UK lo è grazie al Equality Act dal 2010. Altri paesi, come le Filippine, hanno preso la direzione opposta: allattare è consentito praticamente solo tra le mura domestiche; il che ha scatenato roventi polemiche e manifestazioni di piazza.

Tornando in Italia, non essendoci una regola, è tutto lasciato al buon senso di ciascuno. Quindi la cosa è, per ora, una pura questione etica e/o morale. Sono stati recentemente riportati casi di intolleranza da allattamento in bar e luoghi pubblici, chiamando in causa a giustificazione una fantomatica politica del locale. L’Unicef e l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandano di creare ambienti accoglienti per favorire l’allattamento in strutture pubbliche. Alcune amministrazioni locali hanno fatto partire il progetto Baby Pit Stop, che prevede uno spazio dedicato all’allattamento e alla cura del bambino all’interno di luoghi pubblici come negozi, ristoranti, università e supermercati. Nell’attesa di capire chi pagherà e che reale diffusione avrà il progetto, ritorniamo all’aspetto etico/morale.

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Storie di… vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 2

Riprendiamo la nostra panoramica sulle zone di eccellenza vinicola del Veneto. La scorsa volta abbiamo descritto, tanto per rimanere nelle vicinanze di casa nostra, la D.O.C. Riviera del Brenta. In questa puntata esploreremo le aree nel Nord-Est, che interessano principalmente le province di Treviso e Venezia.

Prima però, un breve salto indietro nel tempo: siamo nell’antica Roma, ospiti nella dimora di un ricco patrizio, distesi su un triclinio. Le pietanze, come le coppe, si susseguono incessanti, perché il vino è prima di tutto convivio. Il galateo dell’epoca però impone al padrone di casa di non far ubriacare i commensali. Ma come evitarlo, se ogni scusa è buona per un brindisi, alla salute di un amico o dell’amata, svuotando tante coppe quante erano le lettere del nome dell’interessato/a? Allungare il vino con acqua era una pratica quindi necessaria, ma il più delle volte insufficiente: al fine di “liberare” l’ospite dagli eccessi, i servi a fine pasto servivano un disgustoso miscuglio di mandorle amare tritate, cavolo crudo e polmone di capra. Il vomito, e quindi la “liberazione”, erano assicurati. Come diceva il grande Totò, “alla faccia del bicarbonato di sodio!”

 

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Pollice opponibile – Ludopatia

Quante volte abbiamo messo in dubbio l’intelligenza del genere umano? Quante volte abbiamo giudicato l’agire dei nostri governi dissennato, oppure il comportamento di qualche conoscente quantomeno stupido? Se dobbiamo credere alla teoria evolutiva, cioè che l’uomo deriva dalla scimmia, c’è da dubitare che il processo sia veramente giunto a conclusione. Anzi, se studiassimo a fondo i comportamenti sociali dei nostri amici primati capiremmo che, spesso, avremmo solo da imparare. Analizzando le regole tribali che governano la nostra società sembrerebbe che, sempre più spesso, la nostra indole ancestrale prenda il sopravvento e finiamo per comportarci, per l’appunto, da scimmie.

Solo i primati e l’uomo, salvo alcune eccezioni, hanno il pollice opponibile, sono cioè in grado di sovrapporre il pollice alle altre dita della mano. Questa è, ad esclusione del sopracitato intelletto, ciò che ci accomuna maggiormente ai nostri cugini. Vedendo ciò che ci accade intorno però, non sono così sicuro che alle scimmie faccia poi tanto piacere essere accostate all’uomo. Io, al posto loro, prenderei le distanze…

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Senza olio di palma – Il risvolto del risvoltino

Avete mai pensato quali dei nostri comportamenti, scelte e atteggiamenti sono realmente dettati da libero arbitrio e quanti sono invece influenzati dalle mode del momento? Considerando l’enorme quantità di stimoli che riceviamo quotidianamente da televisione e social media, dare una risposta certa potrebbe essere più complicato del previsto. Certo, la domanda è provocatoria: chi sarebbe disposto ad ammettere di essere così pesantemente influenzato da scelte di altri? Può valere per il vestire, per la pettinatura (chi scrive, almeno in questo, può dire di esserne immune…), per le abitudini culinarie.

Ecco, prendiamo il cibo: negli ultimi tempi il Grande Satana in ambito alimentare è senz’altro l’olio di palma: sembra sia stato recentemente aggiunto nella lista delle armi di distruzione di massa. Già vedo nel prossimo conflitto globale frotte di aerei volare a bassa quota per spargerlo su ignari e inermi cittadini. Risultato: tra un po’ troveremo la dicitura “senza olio di palma” in oggetti insospettabili, come vestiti, giocattoli e creme corpo.

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Storie di… vino! Le eccellenze del Veneto – Parte 1

Storie di…vino!

Le eccellenze del Veneto – Parte 1

Articolo apparso su Me Magazine del mese di Novembre 2016

La produzione vinicola è certamente uno dei fiori all’occhiello della nostra bella Riviera del Brenta. La tradizione vuole farla risalire all’epoca etrusca, anche se per avere produzioni di un certo rilievo si son dovuti attendere i Romani. I nostri antenati capitolini erano, però, alquanto bizzarri: potevano bere solo gli uomini adulti oltre i trent’anni e usavano allungare il vino, sperando di prolungarne così la conservazione, con “ingredienti” particolari, quali profumi, resine, acqua di mare, cenere e miele, ben più invasivi del nostro innocuo acqua e vin!
La diffusione del vino nel territorio nazionale è merito quindi dei Romani, ma è grazie ai floridi commerci della Repubblica di Venezia che i vini della Riviera del Brenta hanno varcato i confini nazionali: il vino divenne infatti uno dei principali prodotti di scambio con le città di Padova e di Venezia, che lo commercializzavano in tutti i porti del Mediterraneo.
La produzione vinicola nelle terre della Riviera del Brenta è indissolubilmente legata alle potenti famiglie patrizie veneziane del XVI e XVII secolo, di cui le numerose ville lungo il fiume e i possedimenti nelle campagne circostanti ne sono testimoni e icone incontrastate.
La zona D.O.C. (Denominazione di Origine Controllata) Riviera del Brenta si divide tra le province di Venezia e Padova, delimitata a Nord dai comuni di Loreggia, Trebaseleghe e Scorzé, a Levante dai comuni di Martellago, Spinea e Mira, a Sud dai comuni di Campagna Lupia e Piove di Sacco, e a Ponente dai comuni di Limena, San Giorgio delle Pertiche, Campo San Martino e San Giorgio in Bosco.

Particolarità: nessuno dei vitigni coltivabile nella zona D.O.C. Riviera del Brenta previsto dal Disciplinare è autoctono (si tratta, cioè, di vitigni non originari delle terre in cui sono coltivati). Dalla Francia abbiamo importato Pinot Bianco, Pinot Grigio, Chardonnay, Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Carmenère; dal Friuli Tocai e Refosco dal peduncolo rosso; Raboso dalle zone del Piave e dalla provincia di Verona.

Grappolo di uva Raboso del Piave

Il 92% circa della produzione vinicola della D.O.C. Riviera del Brenta è controllato dalle Cantine disseminate nel territorio (pensiamo alle Cantine Sociali dei nostri comuni). Dall’unione delle stesse è nato il “Consorzio Tutela Vini D.O.C. Riviera Del Brenta” con lo scopo di valorizzare i vini della zona e, attraverso di essi, promuovere il turismo enogastronomico nelle nostre terre.
Altre zone interessanti nella provincia sono la D.O.C. Venezia (sì, proprio come la città) che tocca in parte la provincia di Treviso fino ai colli di Conegliano e che prevede la coltivazione degli stessi vitigni della D.O.C. Riviera del Brenta più il Verduzzo; la D.O.C. Piave che interessa, oltre le provincie di Venezia e Treviso, anche la provincia di Pordenone e che prevede la coltivazione, tra gli altri, di un vino particolare: l’Incrocio Manzoni. Quest’ottimo vino nasce da una felice intuizione del Prof. Luigi Manzoni, Preside della Scuola Enologica di Conegliano, che negli anni ’30 piantò il clone nato dall’incrocio tra  Riesling Renano e Pinot Bianco nelle colline trevigiane e ottenne un vino armonico e di interessante struttura, ora coltivato in molte altre regioni d’Italia.
Come non citare poi la D.O.C. Lison-Pramaggiore e le relativamente nuove (dal 2011) D.O.C.G. (Denominazione di Origine Controllata e Garantita) Lison e Malanotte del Piave? Ci sarebbe molto altro da dire, ma dovremo aspettare la prossima puntata.
Intanto… alla salute!

Storie di…vino! – Il Veneto e l’Amarone

Storie di…vino!

Il Veneto e l’Amarone

Articolo apparso su RDB Magazine del mese di Ottobre 2014

Il vino fa buon sangue e noi veneti lo sappiamo bene. Lo dicevano i nostri nonni, quando il vino era un alimento necessario nelle diete, talvolta povere, delle nostre campagne, e non la bevanda conviviale di oggi. La nostra fama di gran consumatori, non a torto, ci precede anche al di fuori dei confini nazionali. Fortunatamente, oltre alla quantità, possiamo essere fieri anche di produzioni di altissima qualità: il Veneto esprime infatti alcune eccellenze nazionali ormai famose in tutto il mondo.

Vini DOC VenetoAmarone, Bardolino, Recioto di Soave, Torcolato di Breganze, Refrontolo Passito, Prosecco e Raboso solo per citarne alcuni. Il loro successo è determinato dal giusto connubio tra natura e cultura: vitigni autoctoni di qualità, dolci colline e il giusto clima per gentile concessione di Madre Natura; il rispetto dell’ambiente, una cultura vitivinicola di prim’ordine in un sapiente mix di innovazione e tradizione da parte dell’uomo.

E i vini di ieri? Che vini bevevano i nostri antenati nelle nostre terre?

Scoperte archeologiche certificano la presenza della vite nel Veneto molti secoli prima di Cristo, anche se l’uva veniva consumata fresca, come alimento. Le prime testimonianze sono datate VII Secolo A.C. grazie agli Etruschi, ma è grazie ai Romani che la produzione enologica veneta compie un importante balzo in avanti, grazie al vino Retico, prodotto con uva Retica (forse un’antenata dell’attuale Valpolicella). C’è da dire che, a quei tempi, il vino non era un bene ad appannaggio di tutti: potevano infatti bere solo gli uomini adulti oltre i 30 anni (il che oggi, sarebbe una tragedia considerato che il vino, e gli alcolici in generale, sono tra gli strumenti di seduzione dei poco audaci che cercano nel Dio Bacco un modo per vincere la timidezza, ma per funzionare si dovrebbe bere in due…).

Romani vino

I nostri antenati capitolini erano poi alquanto bizzarri: usavano allungare il vino, sperando di aumentarne la conservazione, con “ingredienti” particolari, quali profumi, resine, acqua di mare, cenere e miele, insomma ben più invasivi del nostro innocuo acqua e vin!

 

 

 

Tornando a oggi, il vino più rappresentativo del Veneto in Italia e nel mondo è certamente l’Amarone. Vino corposo e di notevole struttura, inconfondibile, dal coloro rosso rubino carico se giovane, dai riflessi aranciati se invecchiato, dai profumi speziati e persistenti con piacevoli sentori di noce e frutta di sottobosco, al palato forte ma equilibrato e rotondo, lascia un piacevole retrogusto amarognolo e di cioccolato. Viene prodotto nella Valpolicella, regione collinare in provincia di Verona che comprende i comuni, nella sua denominazione Classico, cioè di più antica tradizione, di Marano, Negrar, Fumane, Sant’Ambrogio e San Pietro in Cariano, in prevalenza con uve autoctone Corvina, Rondinella, Molinara e Negrara.

Comuni Amarone

Difficile credere che un vino così famoso sia nato da un errore: si tratta in pratica di un Recioto scapà. Come il Recioto infatti, l’Amarone è prodotto con une appassite, cioè estirpate dalla pianta e fatte appassire al sole su appositi graticci dove, durante il processo di vinificazione, la fermentazione viene bloccata un po’ prima che tutti gli zuccheri si siano trasformati in alcool; ebbene, si dà il caso che da un Recioto fatto fermentare per troppo tempo se ne sia ricavato un vino passito secco, privo di zuccheri residui, molto alcolico (tipicamente sui 14°) e, a furor di popolo, apprezzatissimo.

Quindi in alto i calici e… alla salute!

Recensioni

Si può pretendere di scrivere senza leggere? Io credo di no. La prima regola per chi vuole avventurarsi nel mondo della scrittura è essere prima di tutto un lettore vorace.

Autori diversi, generi diversi, epoche diverse. Come unico filo conduttore la fame di libri, l’odore delle pagine, il voler sapere come va a finire, la ricerca di un’emozione.

E poi, alla fine della lettura, riprendere il libro, soppesarlo, rifletterci sopra, interiorizzare un concetto, stampare nella memoria una situazione, ricordare un brivido provato leggendo quella particolare riga.

Così ho pensato di creare questa sezione del sito, dove inserirò le recensioni dei libri che ho letto e che leggerò. Mi piacerebbe che questa diventasse una sezione condivisa con voi.

Se volete inviarmi le vostre recensioni, di qualsiasi libro, sarò lieto di pubblicarle. Perché sarà comunque un segno del nostro passaggio.

Inviami la tua recensione!

La biblioteca dei morti - Glenn Cooper

 

07/04/2013

Recensione di Stefano Baldoni

La biblioteca dei morti – Glenn Cooper

 

 

 

Il libro delle anime

 

12/04/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Il libro delle anime – Glenn Cooper

 

 

 

 

Se ti abbraccio non avere paura - Fulvio Ervas

 

21/04/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Se ti abbraccio non aver paura – Fulvio Ervas

 

 

 

 

Sia fatta la tua volontà - Stefano Baldi

 

12/05/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Sia fatta la tua volontà – Stefano Baldi

 

 

 

 

L'esca - José Carlos Somoza

 

29/05/2013

Recensione di Stefano Baldoni

L’esca – José Carlos Somoza

 

 

 

 

 

Eclissi - Francesco Mastinu

 

 

13/07/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Eclissi – Francesco Mastinu

 

 

 

 

La leggenda del vento - Stephen King

 

21/07/2013

Recensione di Stefano Baldoni

La leggenda del vento – Stephen King

 

 

 

XY - Sandro Veronesi

 

08/08/2013

Recensione di Stefano Baldoni

XY – Sandro Veronesi

 

 

 

La collezionista di profumi proibiti - Kathleen Tessaro

 

21/08/2013

Recensione di Claudia Andreato

La collezionista di profumi proibiti – Kathleen Tessaro

 

 

 

Inferno - Dan Brown

 

26/08/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Inferno – Dan Brown

 

 

 

Venti corpi nella neve - Giuliano Pasini

 

03/11/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Venti corpi nella neve – Giuliano Pasini

 

 

 

Il fuoco nell'anima - Gianpiero Possieri

 

24/11/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Il fuoco nell’anima – Gianpiero Possieri

 

 

 

Tre secondi - Roslung & Hellstrom

 

30/12/2013

Recensione di Stefano Baldoni

Tre secondi – Roslund & Hellstrom

 

 

 

Il suggeritore - Donato Carrisi

 

03/05/2014

Recensione di Stefano Baldoni

Il Suggeritore – Donato Carrisi

 

 

 

Lo spettro - Jo Nesbo

 

11/05/2014

Recensione di Stefano Baldoni

Lo spettro – Jo Nesbo

Lo spettro – Jo Nesbo

Lo spettro - Jo Nesbo

Voto: 7,0

Titolo: Lo spettro

Autore: Jo Nesbo

Genere: Crime

Editore: Einaudi, 2012

Consigliato: Solo agli appassionati di Harry Hole

 

 

TRAMA ORIGINALE

Sono passati tre anni da quando Harry Hole è andato via. Via da Oslo, via dalla Centrale di polizia, via dalla donna che ha amato e ferito troppo, e troppe volte. Ma dai suoi fantasmi no, da quelli non è riuscito a fuggire: l’hanno inseguito a Hong Kong e ora lo reclamano, e Harry non può non rispondere, non può non tornare. Oleg, il figlio di Rakel, il ragazzo che lui ha cresciuto come fosse anche figlio suo, è in carcere. Accusa: l’omicidio di Gusto Hanssen, il suo migliore amico. Movente: secondo gli investigatori, un regolamento di conti nel mondo della droga. Ma Harry non ci crede. Oleg, il suo Oleg, il bambino che lo teneva per mano e lo chiamava papà, può essere diventato un tossicodipendente, ma non un assassino. E a lui non resta che correre a casa, correre contro il tempo, in cerca di una verità diversa da quella già decretata. Una verità che si nasconde tanto nelle maglie dei sentimenti piú profondi che legano le persone, quanto nei quartieri dello spaccio, con l’ombra misteriosa di un nemico inafferrabile che lo vuole morto.

Nona e (forse?) ultima avventura di Harry Hole, che stavolta l’autore scaraventa nei quartieri malfamati di una Oslo tetra e cupa. Una città che sembra essere ostaggio della droga, tra loschi figuri che ne controllano lo spaccio e tossici che si fanno alla luce del sole, senza pudore alcuno. È la droga il vero protagonista di questa storia, nel suo significato vero e figurato: l’autore stesso sembra esserne dipendente (chiaramente ai fini della trama), data la dovizia di particolari con cui ne descrive i traffici, i meandri, i mali e le dipendenze. Jo Nesbo ci vuole dare una lezione di vita: non si può lottare contro un fututo già scritto. E il messaggio arriva alla grande: raramente un finale mi aveva scosso, stupito e fatto arrabbiare come ne “Lo spettro”.

Harry torna appositamente da Hong Kong per scagionare Oleg, suo figlio adottivo, perché accusato dell’omicidio del suo amico Gusto Hanseen. Il protagonista scoprirà suo malgrado che Oleg è diventato un tossicodipendente. Sullo sfondo, la mafia russa che gestisce i traffici di eroina e violina (una nuova, potentissima droga immessa sul mercato), poliziotti corrotti che intralciano le indagini e uomini e donne accecati dalla brama di potere.

L’autore mescola abilmente le carte, portando avanti in parallelo tante piccole storie apparentemente slegate, per poi svelarne qua e là gli intrecci. Ma non tutti gli indizi porteranno realmente alla verità. Proprio questo voler tenere aperti troppi fronti risulta, forse, il vero limite di questo romanzo: il ritmo della narrazione ne risente, soprattutto nella parte centrale. Alcune scene, troppo rocambolesche, tolgono verosimiglianza alla storia e rallentano il ritmo: una su tutte, la ferita al collo di Hole.

L’autore privilegia certamente l’azione alle descrizioni psicologiche, anche se il protagonista, Harry Hole, il figlio adottivo Oleg e Rakel, sua madre e grande amore del protagonista, sono di fatto ben descritti e si prova empatia per loro. Unico neo per Rakel che, inaspettatamente, non sembra mai troppo preoccupata per la sorte del figlio.

Lo stile è efficace: essenziale, chiaro, lineare. Mi è piaciuto in particolare il modo in cui l’autore ha descritto Gusto Hanseen, amico di Oleg, che parla direttamente al lettore, da morto, per raccontare la sua storia. Ho poi apprezzato un passaggio, per profondità e capacità di sintesi, che cito testualmente:

“Il mondo reale è governato da due tipi di persone. Quelle che vogliono il potere e quelle che vogliono i soldi. Il primo vuole una statua, il secondo il piacere. E la valuta che usano quando fanno affari tra di loro per ottenere ciò che vogliono si chiama corruzione”

In sintesi, “Lo spettro” è un romanzo godibile, forse troppo lungo, dal ritmo serrato solo nelle battute conclusive. Sicuramente un must per gli appassionati di Harry Hole, anche se non il migliore della serie, è consigliabile anche ai neofiti di Nesbo, a patto di vincere una sensazione più che sgradevole: l’ago che, ad ogni pagina, si conficca ripetutamente nella vena.

Il suggeritore – Donato Carrisi

Il suggeritore - Donato CarrisiVoto: 6

Titolo: Il suggeritore

Autore: Donato Carrisi

Genere: Thriller

Editore: Longanesi, 2009

Consigliato: NO

 

TRAMA ORIGINALE

Qualcosa di sconvolgente è successo, qualcosa che richiede tutta l’abilità degli agenti della Squadra Speciale guidata dal criminologo Goran Gavila. Il loro è un nemico che sa assumere molte sembianze, che li mette costantemente alla prova in un’indagine in cui ogni male svelato porta con sé un messaggio. Ma, soprattutto, li costringe ad affacciarsi nel buio che ciascuno si porta dentro. È un gioco di incubi abilmente celati, una continua sfida. Sarà con l’arrivo di Mila Vasquez, un’investigatrice specializzata nella caccia alle persone scomparse, che gli inganni sembreranno cadere uno dopo l’altro, grazie anche al legame speciale che comincia a formarsi fra lei e il dottor Gavila. Ma un disegno oscuro è in atto, e ogni volta che la Squadra sembra riuscire a dare un nome al male, ne scopre un altro ancora più profondo.

Premio Bancarella nel 2009, Il suggeritore è il romanzo d’esordio dell’autore pugliese Donato Carrisi. Ne avevo sentito parlare parecchio ed avevo alte aspettative. Purtroppo devo dire che non consiglierei questo libro a nessuno. Perché? Perché scritto male? O perché la trama è banale o sviluppata male? Oppure perché i personaggi sono piatti e sterotipati? No, no, no e ancora no. Si tratta di un romanzo ben scritto e sviluppato in maniera tutt’altro che banale ma, ciononostante, non lo consiglierei. Andiamo con ordine.

All’inizio il ritmo della narrazione è piuttosto basso, almeno fino al ritrovamento del cimitero di braccia, poi subisce un’impennata, anche grazie al susseguirsi degli eventi. Nel complesso il romanzo è scorrevole, il pathos è sempre piuttosto alto e non mi ha mai annoiato. Personalmente non ho condiviso la scelta dell’ambientazione in un luogo non specificato e meno che meno la scelta di affidarsi ad una medium per dare una svolta decisiva alle indagini. Trovo che stoni decisamente con il taglio del romanzo, che per certi versi mi ha ricordato alcuni autori americani per stile e dettagli tecnici (che ho molto apprezzato, si vede che l’autore ha studiato criminologia). I personaggi principali sono ben descritti, con il giusto livello di approfondimento psicologico, sufficiente a creare empatia, e verosimili.

Pur non volendo fare spoiler sulla trama e sui numerosi colpi di scena, devo dire che un paio di passaggi sono piuttosto azzardati: come faceva il serial killer a sapere che proprio l’agente Mila Vasquez sarebbe stata chiamata ad aiutare la squadra speciale? Come ha fatto ad organizzare il suo disegno molti mesi prima non potendo sapere che si sarebbero poi incontrati? Anche se mi ha fatto un po’ storcere il naso, non sono certo questi dettagli che mi spingono a non voler consigliare la lettura di questo romanzo.

Mi è piaciuta l’idea che un delitto ne nascondesse un altro, che ad un male ne seguissero altri. Analizzando questo aspetto solo dal punto di vista della trama, devo riconoscere che la arricchisce e rende il thriller incalzante. Ma, a mio modo di vedere, l’autore ha portato il livello troppo oltre. Troppo l’orrore, troppo efferati i delitti che si scoprono via via. Alla fine ne sono risultato emotivamente stremato. Alcuni delitti, che sono descritti con maestria, mi hanno fatto male al cuore. La trama può stare in piedi anche su un unico delitto, mentre qui dobbiamo fare i conti con bambine uccise e con molti altri delitti, alcuni anche difficilmente concepibili per efferatezza e crudeltà.

È questo il motivo per cui non mi sento di consigliarlo: è un romanzo che fa male all’anima, perché esaspera fino al parossismo il fascino del male.

 

 

Non andare via

Riemergo dal sonno, forse svegliato dal colpetto sul fianco che farai finta di avermi dato per sbaglio. Perché, in fin dei conti, lo fai sempre: quando non riesci a dormire mi svegli e mi fissi, non puoi sopportare che io dorma e tu no. Mi giro ed eccoti lì, non appena riesco a mettere a fuoco la vista. Ogni mattina guardarti è una sorpresa, perché riesco a scorgere particolari sempre nuovi. Quelle efelidi ad esempio, appena pronunciate in inverno, ma che in estate esplodono in un gioco unisci i puntini fino all’infinito, o quel naso appena storto, che si nota solo fissandoti a lungo da una certa angolazione, privilegio solo mio. E quella bocca dal taglio nobile, che tanto mi ricorda alcuni ritratti di donne del ‘500.

Ma oggi c’è qualcosa di diverso. Hai qualcosa di troppo grande per tenertelo dentro, te lo leggo negli occhi, e io mi sento utile perché sono sempre e comunque la tua prima scialuppa di salvataggio; che qualche volta fa acqua, e magari non ti porta in salvo ma, nonostante tutto, la tua prima scelta.

Ora che i miei sensi cominciano ad assestarsi, mi concentro sui tuoi occhi, che non sono gonfi solo dal sonno. E infatti mi basta un gesto per vedere la prima lacrima bagnare il cuscino. Ti accarezzo una guancia e ti scogli, sembri voler scomparire dentro il mio abbraccio. E io mi sento così egoisticamente e meravigliosamente utile ad essere lì con te e per te in questo momento.

Ho sognato di mia nonna”, sussurri. Mi devo sforzare per capire cosa questo significhi per te, e in particolare oggi. Perdere i nonni in età adulta fa parte dell’ordine naturale delle cose, è un appuntamento spiacevole a cui non vorremmo andare, ma che sappiamo già fissato. Quando purtroppo accade, è come se la fase del lutto fosse già elaborata. Forse è solo un modo che abbiamo per sentire meno male. E di solito funziona. Ma non per te, non in questo caso.

Nonna - bimbo maniDi solito gli eventi vissuti durante il giorno non entrano nei sogni la notte seguente, la nostra mente ha bisogno di elaborare le informazioni, interiorizzarle secondo meccanismi tuttora sconosciuti. Ma stavolta sono entrati spalancando prepotentemente la porta, facendo entrare un freddo che ti penetra nelle ossa. E tu non eri ancora pronta; anche se, in fondo, non lo sarai mai, perché il tempo non altera i ricordi più vividi. Il tempo non guarisce, indurisce semmai. Solo perché non riusciamo ad accettare di cascarci un’altra volta, e poi un’altra ancora, semplicemente impariamo a reagire diversamente a determinati stimoli e percezioni, e ogni volta non cadere nel vortice della malinconia diventa un po’ più facile.

Ieri era il primo anniversario della morte di tua nonna, e siamo andati insieme al cimitero a salutarla. È passato solo un anno, anche se, in realtà, se n’era già andata molto prima, chiusa in quel male terribile che ti toglie i ricordi e rende estraneo tutto, persone e cose. Quel male il cui nome ricorda più un attaccante tedesco del Bayern Monaco che una malattia. Ho avuto la fortuna di conoscerla quando ancora aveva qualche lampo di lucidità; ricordo ancora lo sforzo che fece per alzarsi dalla sedia la prima volta che mi vide. Non per me, ma per cosa io rappresentassi per te: il compagno della sua nipote prediletta. La nipote che, assieme a tua madre, aveva cresciuto. Era più di una nonna, era il metronomo che scandiva le tue giornate.

A voce bassa, scandendo le parole, mi racconti il sogno. Forse per controllare il pianto, o forse perché lo stai rivivendo anche ora, da sveglia. Una giornata come tante, in cui dopo cena scendevi al piano sotto, dove abitava con tuo nonno, a guardare la televisione. Forse era la serata di Dallas, non ricordi bene, ma ciò che ti rimane impressa è l’immagine di te e tua nonna sul divano. Lei che ti accarezza le gambe, per ore, ininterrottamente. Quando eri piccola, davanti alla televisione, come quando eri grande e andavi all’università, davanti ai libri. Forse è per questo che schiavizzi me, ora, sul divano: non posso sedermi se non con le tue gambe sopra le mie. Ora lo capisco, e sono contento che tu abbia scelto me per soddisfare questo tuo bisogno primario.

Ma è la frase che ti ha fatto svegliare di soprassalto a farti male, una frase che non riesci a dimenticare. È tardi, e tua madre, come faceva sempre, dal piano di sopra batte il mestolo sul pavimento per ricordarti che è ora di andare a dormire. Tu scatti in piedi, ma tua nonna ti blocca e ti guarda.

Non andare via”.

Solo tre semplici parole, ma non è difficile capire cosa ti stiano scatenando dentro. Il sogno ti ha travolto perché era una replica di quelle giornate lontane, semplici e vere. Così vivido da darti l’illusione di poter correre da lei, ora, come se fosse ancora lì, nel piano inferiore, ad aspettare la sua nipotina. Solo ora posso capire quanto male ti faceva quando, nell’ultimo periodo, non ti riconosceva nemmeno più.

Ieri, al cimitero, siamo stati qualche minuto davanti alla sua tomba. Le hai parlato in silenzio, poi ti ho accompagnato da tuo nonno, sepolto qualche metro più in là. Non ho fatto in tempo a conoscerlo, ma dalla foto sulla lapide sembrava un tipo simpatico. Io non vado mai al cimitero, e nel non vederli insieme, vicini, ho provato una profonda tristezza. Mi hai spiegato che è normale, che se non acquisti uno spazio per una tomba di famiglia non puoi pretendere che i tuoi parenti possano essere sepolti uno accanto all’altro. Ricordo di aver pensato che una coppia, che è stata insieme per così tanti anni, forse, vorrebbe restarlo poi per l’eternità. Forse è veramente così, o forse ci piace solo pensarlo. Perché il cimitero è per i vivi, per chi resta, non per chi se n’è andato; loro, probabilmente, hanno altro a cui pensare.

Poi abbiamo girovagato tra le tombe, tra altri tuoi parenti e conoscenti. Abbiamo ricostruito la storia degli ultimi decenni del tuo paese, come scorrere un album di un’unica grande famiglia, narrato tra un “questo è il nipote di quell’altro” e “questo aveva il negozio di generi alimentari dove ora c’è la gelateria”.

Ricordo il mio sentirmi spaesato, in quel contesto. Estraneo a quello scenario fatto di continuità e ricordi, in questo come in qualsiasi altro album di famiglia. Non ho mai voluto pensare troppo al passato, non perché il mio sia particolarmente doloroso, ma perché concentrato su presente e futuro. E per non rimpiangere le cose che non avevo avuto ed essere pronto ad accettare nuove sfide. Ma ieri ho capito una cosa: il passato non potrà certo dirti chi sei, ma ti ricorda quali sono le tue origini, le tue radici, ed è un buon punto di partenza. Io vedo le tue, così profonde e radicate, e capisco perché sei così attaccata alla terra. Cerco le mie, e faccio fatica a scorgerle. Per scelte non mie, più volte ho dovuto cambiare casa, luoghi e amici. Ricominciare ogni volta da capo era diventato normale. Ho sempre pensato di poter vivere in ogni luogo. La malinconia di lasciare qualcosa o qualcuno veniva sempre vinta dalla curiosità per il nuovo che mi si presentava davanti.

Ho sempre scelto di ricominciare da capo. Ma ora ricomincerei sempre da te, scegliendoti ogni giorno.

Klimt - Il bacioTi guardo ancora, nel letto, mentre cerchi una posizione più comoda. Ti fisso, lascio che il tempo passi senza rendermene conto. In questo momento sono così fragile che potresti distruggermi, farmi in mille pezzi se solo lo volessi. Forse l’amore è proprio questo: il sapere di potersi abbandonare, mettere le proprie debolezze nelle mani di un’altra persona sperando che non se ne approfitterà mai. Ti osservo mentre lentamente ti calmi. I tuoi respiri si fanno più regolari e profondi. Continuo ad osservarti finché ti riaddormenti, perché in fin dei conti è domenica e chi se frega se la mattinata se ne andrà così. Ti annuso, cercando la sicurezza del tuo odore, che saprei riconoscere ovunque. E ora, solo ora che sei inoffensiva mi lascio andare anch’io. Perché dei due sono l’uomo e ci tengo al mio ruolo, vero o presunto. Perché anche la paura fa parte dell’amore, in barba ai luoghi comuni. La paura di perderti, o di non essere all’altezza. La paura di non riuscire a leccare via tutto il sangue dalle tue ferite. E senza che riesca a controllarlo, anche i miei occhi si gonfiano di pianto. Ti annuso ancora, e sai di buono, sai di casa. E finalmente ne comprendo il mio significato personale: per me casa saranno tutti i luoghi del mondo in cui potrò riconoscere il tuo odore.

Tre secondi – Roslund & Hellstrom

Tre secondi - Roslung & HellstromVoto: 8,0

Titolo: Tre secondi

Autori: Anders Roslung & Borge Hellstrom

Genere: Thriller

Editore: Einaudi, 2010

Consigliato: SI

 

TRAMA ORIGINALE

Piet Hoffman, nome in codice Paula, è da anni un infiltrato per conto della polizia svedese. Ma Piet è anche un uomo qualunque, che ama sua moglie e accompagna a scuola i due bambini. Per stroncare il  traffico di stupefacenti di una mafia dell’Est, è costretto a entrare da criminale in un carcere di massima sicurezza. Ma qualcosa va storto.

A Piet, assolutamente solo, braccato a ogni passo, sembra non essere rimasta scelta. Se vuole proteggere la sua famiglia, deve diventare criminale in tutto e per tutto. Intorno a lui si muovono Ewert Grems, vecchio commissario cocciuto di Stoccolma,  poliziotti che si addestrano in America, killer senza frontiera, gangster polacchi all’assalto dell’Occidente, politici spaventati che non esitano di fronte al crimine. Il lato più oscuro della società alza un muro impenetrabile, davanti a un uomo solo, alla sua paura.

Ci sono volte in cui scegliere il libro dalla copertina porta a grandi delusioni. Non è stato il caso di Tre secondi, thriller della strana coppia svedese formata da Anders Roslung & Borge Hellstrom. Giornalista il primo, ex detenuto il secondo, sono ormai considerati tra i migliori scrittori di crime svedesi. Non a torto.

Tre secondi è il tempo tra un ordine e l’arrivo a bersaglio di un proiettile, sparato da un fucile di precisione da una distanza di oltre cinquecento metri. Ma è anche il tempo a disposizione di un detenuto, Piet Hoffman, per salvarsi la vita. Il protagonista, nome in codice Paula, ex delinquente e infiltrato della polizia svedese, dopo essersi guadagnato la fiducia di una organizzazione criminale polacca che opera nel traffico di droga, fa in modo di finire in galera come detenuto per ottenere informazioni sul traffico di stupefacenti nelle carceri svedesi. Una volta dentro, riuscendo a introdurre droga nel penitenziario di massima sicurezza dove è rinchiuso, in breve diventa il miglior pusher della struttura, ma alcuni detenuti vengono a conoscenza del suo doppio gioco. La polizia gli volta le spalle, non riconoscendo il suo ruolo di infiltrato. Si ritrova solo, senza amici e senza copertura, con il carcere a vita come unica alternativa alla morte. Ma potranno tre secondi cambiare il destino di un uomo?

Oltre a un thriller incalzante, un romanzo sociale: dai “guasti” del sistema carcerario svedese, all’uso e abuso di criminali veri come collaboratori di giustizia. Quello che potrebbe sembrare un ossimoro, è spiegato dagli autori stessi in una nota in fondo al testo: “Da molto tempo la polizia utilizza i criminali come talpe e informatori…”, “…la polizia non si fa scrupolo di manipolare registri e verbali. La falsificazione di dati e informazioni essenziali, dunque, è diventata un metodo di lavoro”.

Gli autori sono riusciti a inserire nell’intreccio della trama un’enorme quantità di informazioni sulla vita carceraria e sul sistema penitenziario svedese senza eccedere nel nozionismo. In questo sta, a mio parere, il loro più grande merito: essere riusciti, attraverso un thriller, a raccontare una realtà scomoda a un pubblico esteso. Risultato ben più difficile da ottenere se gli autori avessero optato per un saggio.

Non sono un esperto di letteratura scandinava, ma ne riconosco lo stile asciutto, veloce e senza fronzoli, quasi privo di digressioni psicologiche sui personaggi. Il che sarebbe sicuramente un difetto se la trama non fosse così avvincente. Non è stato necessario provare empatia per Piet per aver voglia di leggere una pagina in più, ero preso dalla scoperta di una realtà, quella carceraria, che non conoscevo per niente.

La descrizione dei tre secondi, punto del romanzo in cui la tensione sale al massimo, esalta le capacità descrittive degli autori. Raramente ho vissuto scene così vivide durante la lettura di un libro. Poco importa che il finale sia, se non proprio scontato, almeno prevedibile: non avrebbe potuto finire diversamente.

Non riesco a trovare grossi difetti in questo romanzo. È vero che i sentimenti e gli stati d’animo dei personaggi non sono mai molto approfonditi, ma posso dire che me l’aspettavo da un thriller scandinavo?

 

 

A tutti i costi

Il racconto che segue vorrebbe denunciare, in maniera leggera e grottesca, lo stato dell’Editoria in Italia e la difficoltà di pubblicare per chi, come me e come molti altri, ha deciso di armarsi di penna e spada per dare voce ai propri sogni.
Il protagonista, a cui ho prestato il mio vero nome, è un personaggio di fantasia,
con cui condivido però alcuni aspetti caratteriali e somatici.

Venezia, 12 Agosto 2014

“Perché l’ha fatto, Signor Baldoni?”
Guardo divertito il commissario. Sulla targhetta, tra scartoffie e computer, leggo Commissario Giuseppe Esposito. L’accento, più ancora che il cognome, lo inganna. È indubbiamente meridionale, probabilmente dalle parti di Napoli. Simpatici, i napoletani. Il mio nuovo amico Giuseppe ha un’aria stanca e annoiata. E lo credo: è quasi mezzogiorno, fa caldo e preferirebbe starsene in qualche spiaggia assolata. Leggo antipatia nel suo sguardo, probabilmente ha già letto il verbale che mi riguarda e chissà quali altre informazioni sul mio conto. Mi è simpatico, questo baffuto e paffuto commissario, e un po’ mi spiace che si faccia di me un’idea sbagliata. Quando gli avrò spiegato tutto mi darà ragione, capirà che non potevo fare altrimenti.
Io, seduto nella mia sedia, sono tranquillo e rilassato. Certo, ho un po’ di sonno, ho dormito solo poche ore e l’ultima notte è stata molto faticosa. Il letto della cella non era poi così scomodo, ma quando mi hanno arrestato, stanotte, erano ormai le quattro del mattino. Da due ore mi fanno girare da un ufficio all’altro, sempre in piedi e con le manette che, vi assicuro, sono tutt’altro che comode. Io poi ho sempre odiato i braccialetti. Per fortuna il mio nuovo amico Giuseppe me le ha fatte togliere appena mi ha visto. Forse ha capito che non sono poi così pericoloso.
Fatico ancora a credere di aver trovato il coraggio di fare quello che avevo preparato ormai da tempo. Ora mi sento stanco ma, finalmente, appagato. Vorrei lasciarmi andare nella sedia. Le braccia mi fanno male, i polsi mi pulsano. Penso con soddisfazione alla mia opera, che finalmente riceverà l’attenzione che merita. Ed è un pensiero dolce, che mi accarezza l’anima e mi dà delle piccole, quasi impercettibili scosse alla testa. La voce del commissario interrompe il torpore in cui stavo per precipitare.
“Allora, Signor Baldoni, ci vuole spiegare perché ha fatto quello che ha fatto?”
Certo, che stupido. Giuseppe ha bisogno di una spiegazione e io gli sto facendo perdere tempo. Glielo devo a questo paffuto napoletano, emigrato qui al Nord per chissà quali ragioni. E lo devo anche alla mia città. Lo devo alla mia Venezia, che amo così tanto, ma che mi ha visto costretto a deturparne uno dei simboli che l’hanno resa famosa nel mondo. Ho dovuto farlo, pur sapendo di attirarmi l’antipatia di molti miei concittadini. D’altra parte, si sa, si riesce a fare serialmente del male solo a chi si ama. Ma, in questo caso, si tratterà di una ferita superficiale, che si rimarginerà presto.
Finalmente, dopo le ultime ore dove mi ero chiuso in un mutismo assoluto, anche per creare un alone di mistero sul mio gesto, decido di aprire la bocca e soddisfare il mio interlocutore.
“Caro commissario, le dirò tutto, ma a una condizione”.
Mi stupisco di come il mio tono risulti deciso e la voce ferma. Il caro Giuseppe Esposito tradisce un certo stupore; quando risponde, lo fa con una punta di disappunto ma anche, mi sembra di scorgere, di divertimento.
“Non mi sembra che lei sia nella posizione di dettare condizioni, comunque sentiamo cos’ha da dire”.
Mi metto composto nella sedia. È strano per uno che ha le mie aspirazioni, ma parlare di me mi ha sempre messo in imbarazzo. Ci provo.

 

Mi chiamo Stefano Baldoni, sono nato a Venezia il 12 Agosto di 39 anni fa. Non è un caso che sia qui a raccontarvi di me, oggi, proprio nel giorno del mio compleanno. Nulla accade per caso.
Nasco senza una capello e venti giorni dopo la data stabilita dai dottori. Questi due fatti hanno indelebilmente segnato la mia vita: i capelli li ho persi quasi tutti prima di compiere vent’anni e sono un ritardatario cronico. Per ripicca e per evitare l’effetto palla da bowling mi sono fatto crescere la barba, in modo da ristabilire l’equilibrio. Per quanto riguarda il ritardo, invece, ho una vera e propria patologia: se ho il sospetto di essere in orario, mi trovo qualcos’altro da fare in modo da arrivare tardi.
Non sono mai stato bello ma, per fortuna, nemmeno timido: la prima morosa l’ho avuta all’asilo. Alle elementari e medie poi, la mia intraprendenza ha fatto, per l’appunto, scuola; vuoi perché Venezia ispira poesia nei suoi abitanti, vuoi perché avevo capito che per ottenere le cose è necessario sudarsele. Peccato che a una certa riconosciuta bravura nell’approccio, non si sia mai accompagnata altrettanta capacità di instaurare rapporti duraturi. Ecco perché, a 39 anni, sono ancora single per scelta. Scelta di altri, si intende. Molte storie, tante relazioni, molto fumo e poca sostanza.
Ma torniamo all’adolescenza, tempo di ormoni con i denti. Per mantenere vivo il mio istinto di cacciatore, mi iscrivo a un istituto tecnico a Mestre prima e a Ingegneria delle Telecomunicazioni poi. Il percorso tecnico, si sa, è quasi privo di anime femminili, e avrei corso il rischio di sentirmi appagato in ambienti pieni di rappresentanti del gentil sesso come licei e atenei umanistici. Nonostante spiccate doti nelle arti del gozzoviglio e del cazzeggio, riesco a diplomarmi e laurearmi. Non perché sia particolarmente intelligente, ma perché testardo e tenace. E poi odio interrompere le cose a metà.
Nel frattempo, quando ho ancora 15 anni, sono costretto a trasferirmi a Mestre per scelte familiari, abbandonando così l’aura protettiva e compassata di Venezia, a cui però il cuore rimane legato.
Del mio lavoro non vorrei parlare molto, passo dalle otto alle dieci ore al giorno in uno stabilimento in cui si producono oggetti che devono essere poi venduti, nell’ottica di produrne sempre di più. Fino al completo esaurimento delle risorse, mi viene da aggiungere. Ma questa è un’altra storia. Maledette digressioni.

 

Ora devo ritornare sulla Terra. Il buon commissario sta aspettando la mia mossa. Volente o nolente sono riuscito a stimolare la sua curiosità, glielo leggo negli occhi. Respiro a fondo due volte e parlo.
“Lei registrerà quanto le dirò e la registrazione dovrà essere integralmente riportata domani su tutti i giornali locali”.
Non che avessi dubbi sul fatto che il mio gesto avrebbe avuto una qualche risonanza mediatica, anzi. L’avevo fatto apposta. Ma volevo essere io a decidere il messaggio.
Senza dare modo al commissario di rispondere, forse incredulo, forse dubbioso della mia totale sanità mentale, comincio a raccontare la mia storia.

 

Da Il gazzettino del 13 Agosto 2014

Palazzo DucaleL’impalcatura che, per i lavori di ristrutturazione in corso, copre da circa quindici mesi Palazzo Ducale, uno dei simboli di Venezia nel mondo, la scorsa notte è stata oggetto di una bizzarra aggressione. Da oggi, e chissà per quanto, veneziani e turisti potranno “ammirare” un enorme disegno che ne copre quasi un quarto dell’intera superficie, in bella vista da Piazza San Marco. Autore dello strano gesto è Stefano Baldoni, un veneziano di 39 anni, ora residente a Mestre, ingegnere stimato e, fino a ieri, cittadino modello.

Il motivo è spiegato dallo stesso autore in una testimonianza registrata e riportata, come da sua esplicita richiesta, in esclusiva nel nostro giornale. C’è da dire che l’atto vandalico non lascerà segni indelebili al celebre monumento: basterà infatti attendere il termine dei lavori e la rimozione dell’impalcatura, anche se c’è da interrogarsi sull’attendibilità della data, già posticipata due volte.
L’autore voleva certamente attirare l’attenzione su di sé: al termine dell’opera è stato lui stesso a contattare le forze dell’ordine e, al loro arrivo, era già circondato da un nutrito numero di persone. Alcuni divertiti, di certo turisti reduci da una nottata a bacari, altri inviperiti, di certo veneziani non contenti della scelta del celebre monumento come “vetrina”. Viene anche da interrogarsi sulla sanità mentale di Baldoni, che all’interrogatorio in Questura è però sembrato perfettamente lucido e in pieno possesso delle proprie facoltà mentali.
Riportiamo di seguito la registrazione così come ci è pervenuta per dovere di cronaca e senza esprimere giudizi sui contenuti, limitandoci a porre un quesito finale. Preferiamo lasciare ai nostri lettori giudicare quanto segue.

 

“Chiedo scusa a tutti i veneziani e a quanti amano Palazzo Ducale in particolare. Il disegno che da oggi vedrete sull’impalcatura che lo copre, rappresenta la copertina del mio romanzo, un thriller dal  titolo “La gabbia invisibile”. Rappresenta, stilizzata e digitalizzata, la testa di un uomo che urla dentro una gabbia.
Copertina La gabbia invisibileSpero che inquieti quanti la vedranno, perché era quello il mio scopo. Entrare nel cantiere è stato facile, ma mi ci sono volute quasi venti bombolette di vernice e quattro ore di lavoro per riprodurre la copertina sulla tela dell’impalcatura.
Perché l’ho fatto, vi chiederete.
Il motivo è molto semplice: è l’unico modo per riuscire a pubblicare. Il mio romanzo, un thriller, è stato sottoposto alla valutazione delle principali Case Editrici italiane e, pur ricevendo complimenti per contenuti, stile e forma, è sempre stato rifiutato. Sulle prime non riuscivo a capacitarmene, poi ho cominciato a raccogliere un po’ di informazioni.
La verità è che in Italia si legge poco e, viceversa, si scrive molto. Ogni anno vengono pubblicati circa 60000 libri. In altre parole, oltre 160 libri al giorno, e stiamo parlando solo di nuove pubblicazioni e ristampe. Troppi, per un’industria che dal punto di vista delle vendite non decolla. Infatti solo una percentuale esigua arriva in libreria, e una percentuale ancora inferiore ha tirature che superano il migliaio di copie. Considerato il basso livello di alcune pubblicazioni, la cosa potrebbe anche essere positiva, se servisse ad alzare il livello dell’offerta. Purtroppo non è così. Le Case Editrici, coloro che di fatto stampano e pubblicano i libri, sono prima di tutto delle aziende e in quanto tali devono ottenere un utile. Un libro è, al di là di tutte le speculazioni e stereotipi, un oggetto che deve obbedire a precise regole di mercato. È un dato di fatto, ad esempio, che gialli e thriller vendano più di saggi e poesia. Da qualche anno poi, molti comici, calciatori, presentatori o personaggi comunque non famosi in ambito letterario hanno pubblicato libri di successo, saltando di fatto la gavetta a cui tutti gli altri sono invece costretti agli inizi. Sembra infatti che il solo nome famoso basti alle grandi Case Editrici per elargire generosi contratti di pubblicazione, abbandonando quindi quella che dovrebbe essere, almeno nell’immaginario collettivo, la loro prima missione: diffondere la cultura. Ciò passa in secondo piano a favore del facile profitto derivante dalle vendite del libercolo scritto dal vincitore del reality di turno o dal calciatore del momento. L’editoria e le librerie di qualità esistono, ma faticano a rimanere a galla.
Non potendo combattere il sistema con l’unica arma in mio possesso, la penna, ho deciso di adeguarmi anch’io: diventerò famoso! Il mio gesto mi darà visibilità; mi renderà, anche se per poco, celebre. Come personaggio famoso nessuna Casa Editrice rifiuterà il mio romanzo. Arriverò alla pubblicazione e avrò, finalmente, successo.
Scrivere per me è ormai una droga e pubblicare un’ossessione; il mio mestiere di ingegnere mi sembra, ora, inutile e alieno. Io sono nato per scrivere libri. Pubblicherò con una grande Casa Editrice. A tutti i costi”.

 

Ecco quindi il motivo di tanto trambusto.
Viene spontaneo chiedersi se il vero motivo per cui il romanzo in esame non abbia già trovato la soddisfazione della pubblicazione, non sia in realtà un altro, molto più semplice: e se la qualità dello scritto non fosse tale da meritare l’attenzione di una grande Casa Editrice?
Se così fosse, allora, l’autore dovrebbe pensare a qualcosa di più eclatante per ottenere visibilità. Magari evitando, ci auguriamo, di recare danno ai monumenti della nostra amata, e già fin troppo vituperata, città.