Ciò che ricorderò di più di questo periodo è la segreteria telefonica della piscina. Ci portavamo mio figlio, tre e anni e mezzo, la domenica mattina, e si divertiva come un matto. Ci obbliga a telefonare tutti i giorni, anche più volte, per sentire se ha riaperto.
E poi mi chiedo cos’altro ci resterà, di questi giorni.
Forse la bellezza che si manifesta comunque in tutte le cose. O forse la riscoperta creatività, oppure il bisogno di fare ora tutte le cose che avremmo potuto fare prima, quando eravamo presi dalla frenesia di tutti i giorni, senza accorgerci che la vita ci scorreva accanto. Perché è innegabile che nella normalità demandiamo al domani quanto non riusciamo o non abbiamo il coraggio di fare oggi. E poi, si sa, non è importante fare o non fare, ma avere la libertà di scegliere.
La costrizione è sì isolamento, limitazione, e a volte, purtroppo, solitudine e abbandono, ma può anche essere catarsi, introspezione, riscoperta.
E allora penso a tutte le cose che fino ieri ritenevo indispensabili, e ora vedo un mondo, non soltanto il mio, diverso. Mi scopro più empatico, più sensibile. Mi commuovo per un flash mob, per gli applausi dai balconi, perfino per una pubblicità. E vedo lo stesso negli altri. Oddio, più che vederlo lo sento, visto che non possiamo toccarci. Penso a questa ricerca di contatto, questo bisogno di condivisione, di appartenenza e, solo per un attimo, mi chiedo cosa sia, da dove venga. Ma poi capisco che, più importante di catalogare questa sensazione, sia il soffermarsi sul fatto stesso di provarla. Per una volta, voglio concentrarmi sul sentire.
Gli occhi di chi sta facendo l’impossibile affinché tutto questo finisca.
Gli occhi dei nostri figli, di cui non saremo mai sazi.
Gli occhi dei nostri vecchi, ora ancora più fragili. La parte più profonda delle nostre radici che ci abbandona. Gli ultimi saluti dati davanti a un tablet.
La nostra impotenza e la mancanza apparente di un senso. La ricerca di un perché a tutti i costi e il bisogno di credere in qualcosa, perché la razionalità, da sola, non ci basta. Ai fiumi di parole sprecate e a quelle che non trovo per spiegare a mio figlio perché non può vedere i suoi amici dell’asilo.
Ma poi penso anche a tutte le meravigliose frasi già scritte e quelle ancora da scrivere, e a quelle sentite in questi giorni e che ritroveremo nei libri di storia.
E alla musica e a tutte le forme d’arte e all’arte racchiusa in tutte le forme.
Penso alla Natura, che vince sempre, riprendendosi i suoi spazi, facendomi dubitare su quale sia il virus più letale del pianeta.
Chissà cosa ci resterà, di questi giorni. Spero non solo il ricordo delle strade vuote, il suono delle ambulanze, il pane e gli gnocchi fatti in casa. Spero che la velocità con cui torneremo alla vita di prima non ci faccia dimenticare quanto di buono abbiamo tirato fuori da noi stessi. Che sia, come dopo una guerra, anche una rinascita.
Forse, nell’illusione fanciullesca e utopica che, mio malgrado, non mi abbandona nonostante l’età, impareremo ad usare di più il “noi”.