Riemergo dal sonno, forse svegliato dal colpetto sul fianco che farai finta di avermi dato per sbaglio. Perché, in fin dei conti, lo fai sempre: quando non riesci a dormire mi svegli e mi fissi, non puoi sopportare che io dorma e tu no. Mi giro ed eccoti lì, non appena riesco a mettere a fuoco la vista. Ogni mattina guardarti è una sorpresa, perché riesco a scorgere particolari sempre nuovi. Quelle efelidi ad esempio, appena pronunciate in inverno, ma che in estate esplodono in un gioco unisci i puntini fino all’infinito, o quel naso appena storto, che si nota solo fissandoti a lungo da una certa angolazione, privilegio solo mio. E quella bocca dal taglio nobile, che tanto mi ricorda alcuni ritratti di donne del ‘500.
Ma oggi c’è qualcosa di diverso. Hai qualcosa di troppo grande per tenertelo dentro, te lo leggo negli occhi, e io mi sento utile perché sono sempre e comunque la tua prima scialuppa di salvataggio; che qualche volta fa acqua, e magari non ti porta in salvo ma, nonostante tutto, la tua prima scelta.
Ora che i miei sensi cominciano ad assestarsi, mi concentro sui tuoi occhi, che non sono gonfi solo dal sonno. E infatti mi basta un gesto per vedere la prima lacrima bagnare il cuscino. Ti accarezzo una guancia e ti scogli, sembri voler scomparire dentro il mio abbraccio. E io mi sento così egoisticamente e meravigliosamente utile ad essere lì con te e per te in questo momento.
“Ho sognato di mia nonna”, sussurri. Mi devo sforzare per capire cosa questo significhi per te, e in particolare oggi. Perdere i nonni in età adulta fa parte dell’ordine naturale delle cose, è un appuntamento spiacevole a cui non vorremmo andare, ma che sappiamo già fissato. Quando purtroppo accade, è come se la fase del lutto fosse già elaborata. Forse è solo un modo che abbiamo per sentire meno male. E di solito funziona. Ma non per te, non in questo caso.
Di solito gli eventi vissuti durante il giorno non entrano nei sogni la notte seguente, la nostra mente ha bisogno di elaborare le informazioni, interiorizzarle secondo meccanismi tuttora sconosciuti. Ma stavolta sono entrati spalancando prepotentemente la porta, facendo entrare un freddo che ti penetra nelle ossa. E tu non eri ancora pronta; anche se, in fondo, non lo sarai mai, perché il tempo non altera i ricordi più vividi. Il tempo non guarisce, indurisce semmai. Solo perché non riusciamo ad accettare di cascarci un’altra volta, e poi un’altra ancora, semplicemente impariamo a reagire diversamente a determinati stimoli e percezioni, e ogni volta non cadere nel vortice della malinconia diventa un po’ più facile.
Ieri era il primo anniversario della morte di tua nonna, e siamo andati insieme al cimitero a salutarla. È passato solo un anno, anche se, in realtà, se n’era già andata molto prima, chiusa in quel male terribile che ti toglie i ricordi e rende estraneo tutto, persone e cose. Quel male il cui nome ricorda più un attaccante tedesco del Bayern Monaco che una malattia. Ho avuto la fortuna di conoscerla quando ancora aveva qualche lampo di lucidità; ricordo ancora lo sforzo che fece per alzarsi dalla sedia la prima volta che mi vide. Non per me, ma per cosa io rappresentassi per te: il compagno della sua nipote prediletta. La nipote che, assieme a tua madre, aveva cresciuto. Era più di una nonna, era il metronomo che scandiva le tue giornate.
A voce bassa, scandendo le parole, mi racconti il sogno. Forse per controllare il pianto, o forse perché lo stai rivivendo anche ora, da sveglia. Una giornata come tante, in cui dopo cena scendevi al piano sotto, dove abitava con tuo nonno, a guardare la televisione. Forse era la serata di Dallas, non ricordi bene, ma ciò che ti rimane impressa è l’immagine di te e tua nonna sul divano. Lei che ti accarezza le gambe, per ore, ininterrottamente. Quando eri piccola, davanti alla televisione, come quando eri grande e andavi all’università, davanti ai libri. Forse è per questo che schiavizzi me, ora, sul divano: non posso sedermi se non con le tue gambe sopra le mie. Ora lo capisco, e sono contento che tu abbia scelto me per soddisfare questo tuo bisogno primario.
Ma è la frase che ti ha fatto svegliare di soprassalto a farti male, una frase che non riesci a dimenticare. È tardi, e tua madre, come faceva sempre, dal piano di sopra batte il mestolo sul pavimento per ricordarti che è ora di andare a dormire. Tu scatti in piedi, ma tua nonna ti blocca e ti guarda.
“Non andare via”.
Solo tre semplici parole, ma non è difficile capire cosa ti stiano scatenando dentro. Il sogno ti ha travolto perché era una replica di quelle giornate lontane, semplici e vere. Così vivido da darti l’illusione di poter correre da lei, ora, come se fosse ancora lì, nel piano inferiore, ad aspettare la sua nipotina. Solo ora posso capire quanto male ti faceva quando, nell’ultimo periodo, non ti riconosceva nemmeno più.
Ieri, al cimitero, siamo stati qualche minuto davanti alla sua tomba. Le hai parlato in silenzio, poi ti ho accompagnato da tuo nonno, sepolto qualche metro più in là. Non ho fatto in tempo a conoscerlo, ma dalla foto sulla lapide sembrava un tipo simpatico. Io non vado mai al cimitero, e nel non vederli insieme, vicini, ho provato una profonda tristezza. Mi hai spiegato che è normale, che se non acquisti uno spazio per una tomba di famiglia non puoi pretendere che i tuoi parenti possano essere sepolti uno accanto all’altro. Ricordo di aver pensato che una coppia, che è stata insieme per così tanti anni, forse, vorrebbe restarlo poi per l’eternità. Forse è veramente così, o forse ci piace solo pensarlo. Perché il cimitero è per i vivi, per chi resta, non per chi se n’è andato; loro, probabilmente, hanno altro a cui pensare.
Poi abbiamo girovagato tra le tombe, tra altri tuoi parenti e conoscenti. Abbiamo ricostruito la storia degli ultimi decenni del tuo paese, come scorrere un album di un’unica grande famiglia, narrato tra un “questo è il nipote di quell’altro” e “questo aveva il negozio di generi alimentari dove ora c’è la gelateria”.
Ricordo il mio sentirmi spaesato, in quel contesto. Estraneo a quello scenario fatto di continuità e ricordi, in questo come in qualsiasi altro album di famiglia. Non ho mai voluto pensare troppo al passato, non perché il mio sia particolarmente doloroso, ma perché concentrato su presente e futuro. E per non rimpiangere le cose che non avevo avuto ed essere pronto ad accettare nuove sfide. Ma ieri ho capito una cosa: il passato non potrà certo dirti chi sei, ma ti ricorda quali sono le tue origini, le tue radici, ed è un buon punto di partenza. Io vedo le tue, così profonde e radicate, e capisco perché sei così attaccata alla terra. Cerco le mie, e faccio fatica a scorgerle. Per scelte non mie, più volte ho dovuto cambiare casa, luoghi e amici. Ricominciare ogni volta da capo era diventato normale. Ho sempre pensato di poter vivere in ogni luogo. La malinconia di lasciare qualcosa o qualcuno veniva sempre vinta dalla curiosità per il nuovo che mi si presentava davanti.
Ho sempre scelto di ricominciare da capo. Ma ora ricomincerei sempre da te, scegliendoti ogni giorno.
Ti guardo ancora, nel letto, mentre cerchi una posizione più comoda. Ti fisso, lascio che il tempo passi senza rendermene conto. In questo momento sono così fragile che potresti distruggermi, farmi in mille pezzi se solo lo volessi. Forse l’amore è proprio questo: il sapere di potersi abbandonare, mettere le proprie debolezze nelle mani di un’altra persona sperando che non se ne approfitterà mai. Ti osservo mentre lentamente ti calmi. I tuoi respiri si fanno più regolari e profondi. Continuo ad osservarti finché ti riaddormenti, perché in fin dei conti è domenica e chi se frega se la mattinata se ne andrà così. Ti annuso, cercando la sicurezza del tuo odore, che saprei riconoscere ovunque. E ora, solo ora che sei inoffensiva mi lascio andare anch’io. Perché dei due sono l’uomo e ci tengo al mio ruolo, vero o presunto. Perché anche la paura fa parte dell’amore, in barba ai luoghi comuni. La paura di perderti, o di non essere all’altezza. La paura di non riuscire a leccare via tutto il sangue dalle tue ferite. E senza che riesca a controllarlo, anche i miei occhi si gonfiano di pianto. Ti annuso ancora, e sai di buono, sai di casa. E finalmente ne comprendo il mio significato personale: per me casa saranno tutti i luoghi del mondo in cui potrò riconoscere il tuo odore.