Giovedì 10/11/2016, ore 04:05
È dai tempi dell’Università che non cammino a Padova a quest’ora. Era piacevole: strade deserte, pochi pensieri e testa pesante, per via degli spritz prima e delle birre poi. Come vorrei essere ubriaco ora, avere la testa che pulsa, incapace di concentrarmi su altro che non sia la strada. Ma stanotte è diverso, e anche se il senso di ovatta nel cervello è lo stesso di allora, non lo è il senso di leggerezza, di svogliata noncuranza per tutto ciò che mi circonda.
Un unico pensiero fisso. Devo chiamare un sacco di persone, devo avvisarli che va tutto bene. E devo essere convincente. Mi sforzo di tenere un tono rassicurante, cerco di prevedere le domande, il tono carico di ansia di chi dall’altra parte si aspetta di essere rincuorato. Sì, posso farcela. Anche se non dormo da quasi ventiquattr’ore, e oggi abbia vissuto più emozioni che in tutto il resto della vita. Nonostante io stesso non sia profondamente convinto che il peggio sia passato, devo farcela. Per lei, per lui e per noi.
Percorro quasi correndo il tratto da Via Giustiniani, all’uscita del Policlinico Universitario, a Via San Massimo, dove avevo parcheggiato circa due ore prima. Salgo in macchina, prendo il telefono e ti chiamo. Rispondi dopo il primo squillo, chiaramente mi aspettavi.
“Paolo sta bene”.
Ti spiego, cercando di essere il più convincente possibile, ciò che mi hanno detto i dottori. Mi sento ripeterti almeno tre volte sta bene e sento la tua ansia sciogliersi. Ma in realtà ho paura, una paura fottuta. E rabbia: è così profondamente ingiusto che io sia qui, vicino a lui, e tu no. Ma finché parliamo riesco a controllarmi, la tua voce mi calma, anche ora che sei in ansia. Dici sempre che sono il tuo ansiolitico naturale; forse è vero, perché sono più razionale di te, ma solo ora mi rendo conto che anche tu, per il solo fatto di esserci, lo sei per me.
Ho fretta di chiudere la conversazione, non vorrei trapelassero i miei dubbi, che ora non posso permettermi. Devo andare a casa, in fretta, riposare per poi ripartire. Ci sono così tante cose da fare domani…
Con la scusa di chiamare i nostri rispettivi genitori riesco a mettere giù prima di cedere. Ingoio saliva amara, giro la chiave e accendo le luci, deciso a partire senza indugi. Sto per togliere il freno a mano quando arriva: una sensazione di freddo improvviso, dalla nuca alla sommità della testa. Un’immagine si staglia davanti senza alcuna possibilità di tregua: luci accecanti attorno al suo corpicino esile, in contrasto con il buio della notte. La prima immagine di Paolo, nostro figlio, non è quel quadro che ci eravamo raffigurati, quell’apoteosi di tenerezza di una nuova vita che nasce, ma un incubo fatto di angoscia e terrore. Elettrodi che partono dai piedini, dal torace, dai fianchi, cannule che escono dal naso e quel visino che sembra ignaro di tutto quel trambusto, innocente come il bianco della sua pelle.
Basta, non ce la faccio più. Reclino la testa all’indietro, stringo le mani sul volante e scoppio a piangere. Forte, senza alcun bisogno e voglia di controllarmi. Mi lascio andare, sentendo salire il calore sulle guance, assaporando i singhiozzi. Finalmente.
Sabato 12/11/2016, ore 12:10
Riesco a scattarti una foto. Rivederla ci farà piangere, domani come tra trent’anni. È forse questa la felicità? Se la intendiamo come la fine di una sofferenza, certo, lo è. Ma in realtà è solo sollievo. E questo che mi hai confidato, qualche giorno dopo, di aver provato.
Tu che stringi Paolo al petto, seduta in quella scomoda sedia nella nursery è una delle immagini più forti che ricorderò di quei giorni. Eri così fragile e provata, eppure è solo da allora, solo dal quel preciso momento, che tutto è come avrebbe dovuto essere dall’inizio. Il vostro primo abbraccio.
Ci sono cose che un uomo non può comprendere: le sensazioni e il trasporto di una mamma, ad esempio. Posso arrivare a intuire, ma non comprendere. Impossibile decifrare ciò che stai provando. Quindi decido di fare lo spettatore, di essere almeno utile, per farti quella foto che, come l’alcol per un alcolizzato, ti farà paura ma che continuerai a cercare. Mi perdo nel particolare della tua camicia da notte, di come ti veste sulle gambe, sui fianchi. Credimi se ti dico che ti vedo bella anche ora. Nonostante anch’io senta il bisogno di stringere nostro figlio, non voglio rubarvi quel momento, che è solo vostro. Lo capisco anche dal senso di abbandono che vedo in Paolo, quel lasciarsi andare nel tuo petto senza condizioni. È una cosa animale, istintiva. Vedendovi così, insieme finalmente, capisco che l’incubo è finito e finalmente potremo partire come famiglia. In questi ultimi tre giorni le nostre energie e speranze erano rivolte unicamente alla sua sopravvivenza, a dare un seguito a quel benvenuto così traumatico che il mondo gli aveva riservato, mentre ora potremo cominciare a programmare la nostra vita insieme. Non so come andrà, ho letto molti libri, ma mi rendo conto che nessuno potrà mai dirti cosa fare. Nessuno potrà mai dirti che genitore sarai. Io posso solo dire che mi farò guidare dall’amore. Per lui e per te.
Sono le ore 12:10 di Sabato 12 Novembre, e Paolo è tornato dal reparto di Patologia Neonatale di Padova. Ora è in Ostetricia a Piove di Sacco, ed è finalmente tra le braccia della sua mamma.
Mercoledì 09/11/2016, ore 23:15
Esco dalla sala travaglio. Fuori, in corridoio ci sono i tuoi genitori e tua sorella. Siamo ben oltre l’orario di visita, ma chi avrebbe mai potuto fermarli? Cerco di assumere la mia miglior faccia da culo e riesco a dire, con voce ferma, “devono farle un cesareo d’urgenza”. Tua mamma esce dal reparto piangendo, tuo papà rimane pietrificato, tua sorella fissa lo sguardo a terra. Credo l’avessero capito nell’istante stesso in cui mi hanno visto uscire. Io comincio a camminare avanti e indietro, a braccia conserte, sforzandomi di non incontrare mai il loro sguardo.
Qualche minuto prima ero dentro con te. Eravamo insieme, uniti in quello sforzo sovrumano, tributo da pagare per una nuova vita che arriva. Tu, pudica e discreta anche nel dolore, nello sforzo più grande che si possa immaginare e che solo una mamma può sopportare, e io, che cercavo di farti rimanere concentrata ma conscio della mia impotenza davanti a tanto. Dopo sette ore di travaglio, tre induzioni e passato l’effetto dell’epidurale non urlavi, solo ansimavi piano, il dolore ti aveva ormai vinta in un torpore vicino all’incoscienza. Ma c’eravamo vicini, eccome se c’eravamo. La dilatazione era massima, il suo battito regolare, Una mattina di Einaudi che andava a loop, la luce soffusa, l’ostetrica che ormai sentiva la sua testina affacciarsi al mondo. Il rumore del suo battito attraverso il monitoraggio mi dava tranquillità, era il metronomo che scandiva il tempo in quegli istanti unici. Avevamo ripassato insieme la respirazione durante le varie fasi del travaglio, sapevo qual era il mio compito e cercavo di farlo al meglio, unico modo per darti un po’ di supporto.
Quando nasce un figlio nasce anche un papà, è questa la grande differenza: tu sei diventata mamma nel giorno in cui abbiamo scoperto di aspettare un bambino. Ed è proprio così: il bambino lo si aspetta, ma tu lo avevi già cullato nella pancia per nove mesi e più. Quarantuno settimane e due giorni, per la precisione. Io stavo diventando padre solo ora, nel momento in cui vi vedevo lottare insieme per la vita.
In quegli ultimi istanti concitati mi sforzavo di pensare al momento in cui lo avremmo preso tra le braccia, al nostro primo sguardo insieme, alla nostra commozione, al nostro scoprirci genitori per la prima volta. Avevo provato a immaginare questo momento diverse volte, ma senza mai coglierne la vera essenza. Aspettavo, tra una carezza e una spinta, che Paolo arrivasse tra di noi.
Ma non ero pronto per questo, nessuno può esserlo. Il metronomo che rallenta, una voce stridula che rompe l’idillio e tutto il resto poi vissuto come al rallentatore. Il suo battito che rallenta, e rallenta ancora, la sala parto che si affolla di gente, tu che urli il suo nome con quel poco di fiato che ti è rimasto, io che esco come un automa dalla sala travaglio, senza che nessuno abbia bisogno di dirmi ciò che ormai era diventato ovvio.
Ci sono immagini che rimangono indelebili: per me saranno quelle di un’ostetrica che entra con le braccia insaponate fino alle spalle per prepararsi per l’operazione. Sono le 23:15 di Mercoledì 9 Novembre 2016.
Poi venti minuti di nulla. Non ricordo alcuna sensazione in quel mio passeggiare nervoso. Fino a che sento il pianto di un neonato. Paolo è nato ed è vivo, penso. I dati ufficiali diranno alle 23:28. Non riesco a sentirmi felice, e nemmeno sollevato, perché all’appello manchi ancora tu, e senza di te manca la metà del mondo.
Passano altri quindici minuti. Mi ripeto che è normale, perché in fin dei conti ti hanno fatto un’anestesia totale, ma la verità è che ho paura. Mai, nemmeno da bambino, ricordo di aver provato un tale senso di impotenza. Finalmente esce un’ostetrica, la stessa che ci aveva seguito fino alla fine del travaglio, e sorridendomi dice “stanno tutti e due bene”. Brividi alla nuca, e un macigno che dal cuore si sposta un po’ più in basso. Finalmente posso di nuovo guardare in faccia i tuoi genitori e tua sorella e posso condividere con loro questo istante di sollievo.
Prima che possa vederti passano, mi pare di ricordare, altri quindici minuti. Ti raggiungo ai piedi del letto e ti leggo l’incubo negli occhi, tremi per il post operazione e la paura. A nulla servono le mie raccomandazioni e quelle dei dottori: hai bisogno di Paolo, hai bisogno di vederlo e sentirlo. Ci dicono che appena nato non respirava, che hanno dovuto ventilarlo, che ora sta bene ma che per precauzione devono portarlo a Padova per accertamenti. Sospetta asfissia per funicolo al collo, diranno. Negli istanti finali pre-parto il cordone ombelicale gli si era attorcigliato intorno al collo, creando una sofferenza cardiaca. Chi sa delle conseguenze al cervello da carenza di ossigeno non può rimanere tranquillo davanti alla frase “sta bene, ma dobbiamo mandarlo a Padova per accertamenti”. Beata ignoranza.
Il resto è un altro vortice di immagini impresse nella memoria in ordine casuale: la prima immagine di Paolo, il breve istante in cui lo hanno ricongiunto a te, la sua mamma, prima di caricarlo nell’ambulanza, il tragitto fino a Padova in macchina, l’arrivo al reparto di Patologia Neonatale, la firma delle carte in cui mi assumevo, come padre, la responsabilità delle conseguenze in seguito a tutte le cure invasive necessarie per tenerlo in vita. E tu sempre sola e lontana da noi.
Ci sono infiniti modi per approcciare la paternità; il destino ha deciso che il mio doveva essere il più eclatante. Il senso di responsabilità mi era arrivato tutto in una volta, imponente e crudele, come uno tsunami davanti a una casa di paglia. Ci aspettavano giorni duri: tu sola a Piove di Sacco, io su e giù a Padova, a vedere i suoi progressi e portarti foto e informazioni fresche. Ma per quanto riuscissi a rimanere ottimista, il pensiero di te senza Paolo nei primi giorni della nostra vita insieme mi serrava la gola e mi lasciava un profondo senso di ingiustizia e frustrazione.
L’incubo non era ancora finito.
Sabato 19/11/2016, ore 11:30
Finalmente siamo seduti nel nostro divano, rilassati. Paolo ha appena fatto la sua terza poppata giornaliera e dorme beato nella culla. Siamo a casa da Lunedì sera, ma i primi giorni sono stati frenetici, si sono susseguiti senza che ci fosse distinzione tra notte e giorno, tra pranzo e cena. Paolo ci aveva già sconvolto abitudini, casa e vita. È strano che, per quanto sia normale e in qualche modo ci sia da aspettarselo, è una cosa che coglie sempre tutti impreparati. Dopo quei giorni in ospedale non avevamo avuto modo di rifiatare, Paolo reclamava giustamente tutte le nostre energie e attenzioni.
Lo guardiamo dormire sereno e ci sembra quasi impossibile dopo tutto ciò che abbiamo passato. È la prima volta che ci prendiamo una piccola pausa da quando ti hanno ricoverata, e cominciamo a scambiarci le nostre opinioni, sensazioni e sentimenti di quei giorni. Io ti confido che ero molto più impaurito di quanto ti avessi fatto credere, tu mi condividi gli incubi che hanno infestato quelle notti maledette in cui eri sola in quel letto d’ospedale. Ciascuno ora è più consapevole di ciò che ha passato l’altro e ora, forse, siamo ancora un po’ più uniti.
La tristezza di non averlo stretto tra le braccia al suo primo respiro non ci ha ancora abbandonati, e so che rimarrà per sempre un’ombra nel nostro percorso. Ma abbiamo ancora un numero infinito di sguardi, baci e carezze; un numero infinito di giorni, esperienze e scoperte; un numero infinito di volte in cui ci stupiremo di come possa essere bello essere i suoi genitori. Abbiamo perso solo tre giorni, in fondo.
Ma nel tuo sguardo vedo un’amarezza che non ti ho mai visto, una tristezza profonda che ti solca il viso. E allora capisco che hai bisogno di me, ora. Hai bisogno che ti dica qualcosa di bello, qualcosa che ti faccia affrontare il futuro con fiducia. Ti guardo, respiro a fondo, ti prendo il viso tra le mani e ti sussurro, con voce rotta: “Quanto fa infinito meno tre?”
E ora, finalmente, tutto è come dovrebbe essere.
Ciao Stefano un grande abbraccio da Max Ledel….mi hai fatto emozionare,con un nodo in gola .
Grazie caro!